
Chissà perché ricordiamo (soprattutto) due volti: di Gianni Alemanno, prima, e di Virginia Raggi, ora.
Alemanno, allo scoccare dell’accusa (ben prima della sentenza) di “Mafia Capitale” era allibito, pieno di uno sconforto per il non credibile, sconvolto. La Raggi, qualche giorno fa, in un fremito trattenuto di ribellione ad una sentenza, anche lei molto toccata dall’incredibilità della decisione della Corte di Cassazione.
In mezzo, si fa per dire, di queste espressioni, nel decorso di cinque anni dalla prima alla seconda, sarebbe fin troppo semplicistico dedurne la portata di quell’accusa che era ed è di carattere bensì giudiziario (del pm), ma dai risultati affatto politici tant’è vero che gli improperi, gli insulti e le urla grilline contro la politica, non solo corrotta ma in combutta con la mafia, avevano trovato accesso e risposta negli ambulacri sacri della giustizia con la conferma e il sopravvento dell’antipolitica del populismo giustizialista sulla conduzione politica dell’amministrazione della Capitale.
Abbiamo detto “semplicistico” non certo per la portata dell’ultima sentenza della Cassazione, ma per il fatto che delle conseguenze personali, politiche e amministrative di un’accusa divenuta, fin da allora e per anni, il leitmotiv di una incessante campagna screditante, delegittimante e devastante, gli unici a pagarne le conseguenze, a rimanerne distrutti, sono stati coloro che a distanza di anni si vedono per così dire riabilitati rispetto all’imputazione di allora.
E sorge come spontanea una considerazione: se un chirurgo sbaglia, paga. E un magistrato invece no? Non lo si potrebbe, almeno, mandare a fare un altro lavoro?
Per fortuna non tutti i giudici sono uguali, tant’ è vero che all’interno della corporazione in attività la negazione in toto dell’accusa lanciata a suo tempo è arrivata come a sanarne la portata rovinosa. Ma il danno, ormai, era fatto. E tuttavia continuano gli slogan per le manette a go-go antievasione implorate quotidianamente e sbandierate come un’autentica svolta culturale dall’ineffabile guardasigilli Alfonso Bonafede.
Un magistrato come Carlo Nordio, già procuratore aggiunto di Venezia, oggi in pensione ma sempre attento alle cose politiche del Paese, ha di recente richiamato il tema suddetto in un’analisi scrupolosa e spietata della Manovra, specialmente del carcere agli evasori ne ha evidenziato il supporto demagogico privo di finalità concrete, benché grondanti di voglia di visibilità. Ha detto: “Una proposta, quella delle manette, che non produrrà effetti nella lotta all’evasione e, al contempo, ingolferà i tribunali, non solo, ma in un sistema penale sfasciato come il nostro la minaccia della pena non intimidisce nessuno”.
Altro che svolta culturale ed epocale: sarà un disastro. Ma ce ne è anche in riferimento alla sentenza della Cassazione: “Dovremmo esultare – parole testuali di Nordio – che la Cassazione abbia escluso che Roma fosse governata da mafiosi. Invece molti sembrano delusi e quasi vogliono farci intendere che la sentenza non cambia molto. Invece c’è un’abissale differenza fra accuse per mafia e accuse per corruzione. La Capitale era uscita devastata da una sentenza che ora è stata annullata, ma sarà difficile rimediare il danno. Ma almeno abbiamo una pronuncia che speriamo insegni ad essere più prudenti quando si formulano accuse così gravi per gli individui e dannose per la nostra indagine”.
Quella di Nordio è una speranza. Ma temiamo che la sua sia una vox clamantis in deserto.
Aggiornato il 28 ottobre 2019 alle ore 10:31