Brutte correnti

Fra tutte le giustificazioni adoperate dai tre componenti del Consiglio Superiore della Magistratura , per cercare di spiegare cosa facessero a tarda sera in un albergo romano con il dottor Luca Palamara e con l’on. Luca Lotti, i quali del Consiglio non fanno parte, la più originale ed incomprensibile mi sembra quella offerta dal dottor Gianluigi Morlini.

Questi ha infatti affermato di non aver fatto nulla di male andando a cena con i colleghi, ma di aver soltanto sbagliato a non battere in rapida ritirata allorché, dopo la cena e senza preavviso, si unì alla comitiva nientemeno che Lotti. Se Morlini fosse subito andato via – al solo apparire di Lotti – nulla gli sarebbe stato rimproverato.

Questa la tesi di Morlini. Il problema è che, in questo caso, la giustificazione è quasi peggio dei fatti in sé considerati. Per un verso, non può tacersi il sentore di una involontaria comicità, immaginando che all’apparire di Lotti nel salottino romano, immerso in una atmosfera di confidente complicità, Morlini dovesse, colto da orrore, scappar via a gambe levate. Ma chi sarebbe Lotti? Un mostro a tre teste? La reincarnazione di Totò Riina? Il capo mondiale di Cosa nostra?

Il vero problema è invece che il dottor Morlini non sembra essersi reso conto davvero di cosa ci sia di inquietante nel suo comportamento e in quello dei suoi colleghi. Non certo che andassero a cena insieme (anche se la cucina degli alberghi, di solito, pur a 4 stelle, non brilla per qualità); non che si fossero trattenuti a parlare con il dottor Palamara, nel dopo cena; non che parlassero con lui della nomina imminente a Procuratore capo della capitale; non che fosse giunto, inatteso, Lotti o altro deputati di incerta provenienza; non che Morlini non si sia dato, al solo scorgerlo, a precipitosa fuga.

Tutto questo è completamente irrilevante. Ciò che invece, per altro verso, conta – stigmatizzando in modo negativo l’accaduto – e che Morlini purtroppo neppure sospetta è altro: ed è che fra tutti costoro si discutesse della nomina a quella delicata poltrona direttiva – che fra l’altro ha competenza sugli atti commessi da ministri e politici di ogni razza e colore – non già in base a meriti o demeriti di questo o di quel candidato, ma in base unicamente ai rapporti di forza fra le correnti, funzionalizzandoli agli interessi di questo o di quello: in questo caso, di Lotti o di Palamara.

Insomma, in quella notte romana, si poneva a fondamento della nomina la pura forza politica di una o di più correnti, utilizzandola per raggiungere obiettivi dichiaratamente di parte. Questo è il vero problema. Non che si fosse unito all’allegra brigata Lotti o chi per lui. Per comprenderlo, basta mettere in opera una sorta di esperimento mentale, immaginando che tutti costoro discutessero – come in una sorta di nuovo e sconosciuto dialogo platonico – dei requisiti morali e professionali che un candidato a Procuratore in Roma debba possedere.

E che perciò Palamara si attardasse a sostenere la necessità della probità del candidato, mentre i suoi colleghi vedessero come requisito preminente quello dell’equilibrio nel giudicare, di contro a Lotti che invece insisteva sulla preparazione professionale: e che seguendo perciò ciascuno la propria linea interpretativa, si accedesse alla elevatezza del pensiero, la sola dimensione capace di pensare davvero il mondo nel suo insieme e non in modo partigiano e unilaterale.

Ebbene, se anche tutti costoro fossero stati intercettati per tutta la notte mentre erano impegnati a discettare pensosamente su tali dimensioni dello Spirito (la probità, l’equilibrio, la competenza), nessun rimprovero sarebbe stato possibile muover loro. E anzi gli investigatori ne sarebbero usciti come edificati, ascoltandone le voci cadenzare pensieri così elevati e nobili. E Morlini non avrebbe avuto alcun bisogno di fuggire a gambe levate. E invece no. Essi parlavano sì, ma intrecciando discorsi tali da far scorgere qualcosa di simile più ad una resa dei conti di una banda contro l’altra, che a un libero e trasparente confronto di opinioni.

Questo è il punto dolente. Ma Morlini non lo vede. E c’è da disperarsene, dal momento che costoro fanno del male, ma senza neppure rendersene conto. Nemmeno i ladri di professione osano tanto: rubano, ma sanno perfettamente di rubare, prova ne sia che non intendono per nulla esser a loro volta derubati. Qui, invece, è tale la forza dell’abitudine, consacrata nel tempo dai giochi correntizi, che ciascuno di essi fa, ma senza sapere esattamente che cosa; dice, ma senza rendersi conto fino in fondo di ciò che dice; ascolta, ma senza comprendere davvero la portata di ciò che ascolta. Ecco perché son così sorpresi di tanto clamore: perché… “così fan tutti”, per parafrasare il titolo di una celeberrima opera buffa mozartiana. Solo che qui di buffo c’è davvero poco.

Rimedi? Si dovrebbero abolire, come unico ed efficace rimedio, le correnti dei Magistrati. Basterebbe. Ma siccome basterebbe, non lo faranno mai. Ve lo assicuro.

Aggiornato il 14 giugno 2019 alle ore 14:21