
È vero, verissimo che, come dice il nostro giornale, il buon Giuseppe Conte ha scaricato il cerino della crisi nella mani di Matteo Salvini e Luigi Di Maio. E non è soltanto una battuta quella, sempre nei confronti del Presidente del Consiglio, che preferisce chiedere la fiducia alle telecamere piuttosto che andare in un Parlamento dove non gli manca la maggioranza (per ora).
Il fatto è che, Europa o non Europa, i conti italiani non sono affatto in ordine. E il termine deficit imperversa, da Roma a Bruxelles, al di là e al di sopra delle grida, più o meno manzoniane, di un Salvini che non ha mai finito la campagna elettorale europea, ed è già alla vigilia di quella politica (anticipata) col pensiero rivolto, anche, alla procedura del debito, peraltro non ingiustificata e con nelle orecchie uno dei soliti altolà di Luigi Di Maio con l’ultimo “Giù le mani da quota 100!”. Appunto.
E ha non poche ragioni Silvio Berlusconi a reclamare elezioni anticipate, ben sapendo, del resto, che la procedura non è di quelle, per dirla alla Cicerone: illico et immediate, non fosse altro per i 55 giorni obbligatori fin da subito, tanto per cominciare.
Intendiamoci, una certa litigiosità è per dir così necessaria, inevitabile, interna, in un Governo composto da due forze che, sia prima che dopo il voto, non se le sono mai mandate a dire fermo restando che almeno una delle due, cioè quella pentastellata, si è sempre vantata di non avere un programma come le altre ma, al massimo, un (anzi, “il”) progetto di mandare tutto e tutti – gli altri, i nefasti, i corrotti – a carte quarantotto. Ed è finita al Governo da dove, a quanto pare, non se ne vuole andare e guai a chi ne vorrebbe staccare la spina.
In realtà, la diversità fra Lega e Movimento 5 Stelle, la vera e propria disomogeneità fra i due governanti, se all’inizio aveva un che di patetico, ora sta diventando un vero e proprio danno sullo sfondo di pochissime realizzazioni, moltiplicate per mille dalla loquacità mediatica dimaiana in concorrenza col grido costante salviniano, preferibilmente via Twitter, di promesse e di riforme: del giorno dopo. En attendant Godot, si vorrebbe qui ricordare ai due promettitori che, ne siamo certi, ignorano l’antica e classica definizione circa le promesse giudicate dall’immortale Orazio come parole e voci. Niente di più.
E come metterla coi conflitti interni, che non paiono cessare? Eppure, il monito del Presidente della Repubblica era stato chiaro: “Libertà e democrazia non sono compatibili con chi alimenta conflitti”, con una evidente esplicitazione nell’indicare l’unica strada percorribile affinché il Paese esca indenne dalla pericolosa situazione nella quale versa la nostra economia, con i suoi inevitabili riflessi sull’occupazione, sull’avvenire delle nuove generazioni, sulla stessa stabilità sociale.
Un intervento di misura, quello mattarelliano, che sembra sia stato accolto bon gré mal gré dal duo vicepresidenziale del Consiglio, anche per merito (si fa per dire) di un Conte che sembrava alla vigilia di dimissioni, poi tacitate per l’accordo in extremis degli infaticabili duellanti e scaricando il cerino acceso della crisi nelle loro mani. Durerà? Una domanda dalla risposta non semplice anche se il decreto “Sblocca cantieri”, invocato ripetutamente da Salvini, è stato acquisito ma sullo sfondo, sempre e comunque, di qualche altra rottura avanzata sui social network dal salvinismo di lotta e di governo, forse in memoria del leggendario patto di governo da utilizzare ogni volta come una sorta di bandiera, meglio di appiglio se non, addirittura, di simulacro. Il potere per il potere, si vorrebbe qui dire. Con un punto certo e forte a favore di Salvini che lo differenzia di molto dai compagni di viaggio in calo vistoso di consensi, costoro, mentre il salvinismo sa perfettamente dove pescare nel magma del risentimento sociale e delle paure dei cittadini muovendosi su questa strada con determinazione feroce e portando a rimorchio il filosofeggiante (da quattro soldi) Di Maio che, pur di restare in sella, ha bruciato in un anno il patrimonio di voti ottenuti nelle elezioni dello scorso anno.
E intanto, quando il cerino si accende, il rapido Salvini lo passa al collega con uno sport nel quale non ha rivali. A parte, s’intende, l’imperativo del “fare”, pardon di quel faremo presto e bene, di tanto sloganistica efficacia quanto di invisibile, o quasi, realizzazione.
È il Governo del “neppur si muove”. Salvo i cerini.
Aggiornato il 07 giugno 2019 alle ore 10:10