Il Caso Landi, la Corte europea e il dramma della giustizia vendicativa o discrezionale

Uno degli indicatori dello stato di difficoltà del sistema giudiziario italiano è ormai rappresentato da qualche tempo dalla facilità e dalla velocità con cui è possibile dedicarsi all’attacco alla giurisdizione e all’indipendenza della magistratura giudicante ogni volta che essa si permette, nel pieno rispetto dei codici, di emettere una sentenza difforme dalle aspettative giustizialiste dell’opinione pubblica. Una scorsa a poche righe estrapolate da pagine di motivazioni, nessuna conoscenza della legge né la più pallida idea delle modalità e dei passaggi attraverso cui si giunge ad un verdetto e a stabilire, ad esempio, che non tutti gli omicidi sono uguali tanto da prevedere graduazioni di pena differenti da caso a caso, sono sufficienti per giudicare una pena inappropriata e troppo benevola. È nuovamente accaduto a causa delle attenuanti concesse agli imputati nelle recenti sentenze emesse dai giudici Silvia Carpanini a Genova e Orazio Pescatore a Bologna che hanno ridotto a 16 anni la condanna di entrambi i due condannati per femminicidio, l’ecuadoregno Javier Napoleon Pareja Gamboa e di Michele Castaldo. L’aver sottratto gli imputati alla giustizia vendicativa dell’opinione pubblica ha scatenato esponenti di governo, media e cittadini contro la “reintroduzione del delitto d’onore”. Sentenze, ricordiamolo, per arrivare alle quali i giudici hanno semplicemente applicato la legge e, come ha spiegato il giudice Carpanini, “le regole del diritto che sono altro dalle emozioni dell’opinione pubblica”.

Agitar le manette e una giustizia meramente vendicativa è una scorciatoia che consente di capitalizzare consensi ma è un modo per non affrontare le spine reali del sistema giustizia. Tanto più che di fronte ad alcuni casi paradigmatici diventa ancor più chiaro che alla politica, a certi ministri ed ai media anziché montare sempre in sella alla deriva populista e fomentare la spinta giustizialista andrebbe chiesto di spostare l’attenzione sulle effettive e molteplici criticità che segnano la degenerazione del sistema giudiziario italiano e che rischiano di costare molto allo stato italiano in termini di risarcimenti a chi delle aberrazioni del potere giudiziario rimane vittima.

È emblematico il caso della signora Annalisa Landi a cui, prima di vedersi assicurare un provvedimento giudiziario a sua tutela, nonostante le ripetute denunce e avvisi dei carabinieri alle autorità giudiziarie competenti, il 14 settembre 2018, il compagno Niccolò Patriarchi, nella loro abitazione di Scarperia (Firenze), ha ucciso con un coltello il figlio di un anno, tentato di lanciare la figlia dal terrazzo dopo aver ferito con lei stessa. Motivi per cui il difensore della donna, Massimiliano Annetta, ha adito la Corte europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo sostenendo nel ricorso la violazione degli articoli 2 e 14 della Cedu da parte delle autorità italiane che, a causa della negligenza professionale dimostrata, sono ritenute responsabili della tragedia familiare annunciata e subita dalla donna. Esito annunciato, dopo anni di episodi sempre più frequenti di violenza domestica da parte dell’uomo, affetto da un grave disturbo bipolare certificato da una precedente perizia psichiatrica disposta in una inchiesta precedente all’omicidio che vedeva l’uomo indagato per maltrattamenti in famiglia e stabiliva una capacità di intendere e volere grandemente scemata nel momento in cui aveva colpito la compagna. Il punto è che le autorità italiane erano state puntualmente avvisate dal 2015, attraverso ripetute denunce da parte della signora, avvisi di aggressione inviati dai carabinieri alla Procura della Repubblica di Firenze e loro raccomandazioni al Pm di chiedere al giudice misure precauzionali, ma risulta che non siano mai state adottate misure necessarie ed appropriate per proteggere la vita delle vittime. Tutti i procedimenti aperti a seguito delle querele sono stati infatti archiviati dalle autorità competenti.

Ora la parola passa ai giudici europei e la Corte europea dei Diritti dell’Uomo è molto chiara sulla materia e stabilisce che “qualora le autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere l’esistenza di un rischio reale ed immediato della vita di un individuo determinato e non hanno fatto quello che potevano fare e quello che si può ragionevolmente aspettarsi da loro per eliminare tale rischio devono essere ritenute responsabili”. La Corte in questo caso stabilisce che lo Stato di appartenenza deve essere condannato per non aver assicurato protezione alle persone sottoposte alla sua giurisdizione. È molto probabile, dunque, che la Corte europea dia ragione all’avvocato Massimiliano Annetta il cui ricorso si incardina sulla difesa del diritto fondamentale alla vita, tutelato dall’articolo 2 della Cedu che obbliga lo Stato non soltanto ad astenersi dal provocare la morte in maniera volontaria ed irregolare, ma ad adottare le misure necessarie alla protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione, sia sull’ipotesi di una palese violazione del diritto di non discriminazione tutelato dall’art.14 sempre della Cedu. “L’aver trascurato la reiterata prospettazione della situazione di pericolo da parte della donna ha - secondo quanto si legge nel ricorso presentato - costituito una discriminazione a suo danno poiché la sua vulnerabilità era insita alla sua condizione di compagna e madre esposta alla violenza del convivente, in ragione della sensazione di impunibilità che questi avvertiva a motivo dell’inerzia delle forze dell’ordine”. La donna, infatti, probabilmente demoralizzata, ha ritirato la prima denuncia dopo 4 mesi dalla segnalazione ai carabinieri.

Il caso, emblematico delle disfunzioni gravi del nostro sistema giudiziario, è uno dei tanti che coinvolge direttamente la responsabilità dello stato italiano per mancata protezione di un suo cittadino pur avendo ricevuto ripetute segnalazioni sui rischi reali che esso stava da tempo correndo. Ma la vicenda, ora approdata davanti ai giudici europei, è anche indicativa di come l’obbligatorietà dell’azione penale troppo spesso si traduca nella totale discrezionalità dell’azione penale da parte della magistratura incaricata di avviare le indagini. Poiché la possibilità delle procure di scegliere chi indagare e la dipendenza dalle possibili ricadute in termini di visibilità mediatica ricavabili dai singoli casi è un elemento che seguita ad avere notevole peso nella scelta dei casi su cui si sceglie e decide di aprire un procedimento.

Alla luce delle polemiche e degli inferociti commenti sulle recenti sentenze ritenute troppo benevole, e sul cui fuoco hanno soffiato esponenti di governo, tuttologi del web e giornalisti che quelle sentenze non le hanno lette, vicende come questa pongono l’interrogativo se sia da considerare più colpevole l’individuo affetto da squilibrio psichico colpevole di omicidio e sul quale si abbattono la spietata gogna mediatica e le elettoralmente redditizie polemiche quando i giudici, applicando il codice penale, concedono le attenuanti per seminfermità mentale, oppure lo stato che non ha protetto la vittima da chi precedentemente e ripetutamente ha dato prova di squilibrio adottando comportamenti violenti, e a fronte di varie denunce da parte della vittima e di segnalazioni dei carabinieri, ha archiviato le inchieste? Non è certo questo femminicidio annunciato il caso, ma il problema resta: quante volte l’obbligatorietà dell’azione penale diventa un po’ più obbligatoria su vicende che magari investono il politico o l’amministratore o il grande industriale, e che consentono di scatenare la grancassa mediatica e ai Pm di essere illuminati dai riflettori?

Aggiornato il 27 marzo 2019 alle ore 16:19