Non per essere noiosi, ma la batosta elettorale del Movimento 5 Stelle è stata ed è una novità “politica” del voto sardo. Del resto, le minimalistiche e superficiali considerazioni del loro capo pro tempore Luigi Di Maio sono risuonate non tanto o non soltanto come un’esigenza di una excusatio non petita, accusatio manifesta, ma soprattutto come la conferma di uno stop che era forse imprevisto dai responsabili massimi pentastellati ma non certo da non pochi osservatori sciolti dagli obblighi dell’esaltazione mediatica di un movimento che più prima che poi si incamminerà lungo la strada in discesa del fu partito di Guglielmo Giannini.
Del resto, le stesse proposte organizzative di “rinnovamento” avanzate da Di Maio non si allontanano dalla superficialità di cui sopra, nel senso e nella misura con cui hanno per dir così riflettuto sulla sconfitta del mitico “nuovo che avanza” e non è avanzato, anzi.
Ci si chiede, insomma, se i provvedimenti in sede organizzativa lanciati da Di Maio siano una risposta vera alla indubbia sconfitta o non invece una serie di considerazioni destinate a lasciare, per dirla in sintesi, le cose come stanno all’interno di un movimento in cui, al di là dello stesso Beppe Grillo che sembra assai meno ottimista del capo voluto da lui, l’impressione è che continui a prevalere la logica della ditta Casaleggio per la quale persino il mitico “uno vale uno” viene smentito proprio da un Di Maio con la sua autoproposta di rimanere capo per altri quattro anni (o forse dieci) sia pure con l’assistenza di un direttorio da lui scelto in un’ottica organizzativa di carattere regionale e con possibilità di alleanze elettorali, vicine e lontane, con altri movimenti.
Non si tratta di una riorganizzazione degna di questo nome ma, semmai, di un arroccamento che non sembra così debitore alle tradizioni del vecchio Partito Comunista ma, semmai, una specie di accomodamento temporale in una situazione pentastellata ben diversa da quella protestataria, urlante e insultante i nemici del prima 4 marzo, ma del dopo, cioè dal governo.
Si dice che l’inesperienza dimaiana sia strettamente legata alla sua giovane età, ma non occorre essere decani politici per vedere e capire che le perdite dei voti e lo stallo dei Cinque Stelle sono interconnessi con la duplicità di una maggioranza al potere in cui prevalgono nettamente l’abilità e la furbizia di un Matteo Salvini cui sono probabilmente risuonati beneauguranti quei “quattro anni ancora” di Di Maio durante i quali, c’è da giurarci, ne vedremo delle belle: per Matteo Salvini, non per Di Maio.
L’altra novità scaturita dal voto in Sardegna è rappresentata dal ritorno di Silvio Berlusconi sulla scena della cosiddetta politica politicante occupando uno spazio di certo ridotto rispetto al prima, ma comunque utile e necessario al dopo. Utile a una Forza Italia della quale è stato detto e scritto che era in via di estinzione causata in parte da una Lega salviniana (che proprio a questo obiettivo sta mirando) omettendo tuttavia il dato del necessario apporto berlusconiano in alleanze presenti e soprattutto future; dunque respingendo platealmente un’alleanza in mancanza della quale sarebbe interessante, e non solo, e ovviamente per Berlusconi, ma per gli stessi osservatori, ottenere da Salvini qualche notizia, qualche riferimento, qualche accenno sia pure timido ma prima o poi inevitabile in un quadro politico in cui s’ode la voce del croupier del Casinò parlamentare: i giochi sono fatti. E il ritorno berlusconiano non è e sarà paragonabile alla leggendaria “riapparizione sui colli fatali di Roma”, ma porta con sé la conferma di una presenza in un quadro politico di oggi e domani nel quale anche il Cavaliere ha qualche carta (politica) da giocare. In Europa. E non solo.
Aggiornato il 04 marzo 2019 alle ore 10:29