Il Paese cambia, le élite no

Anno nuovo, vizi antichi. Il 2019 si apre con le opposizioni, in crisi di progettualità alternativa alle forze di Governo, che sono alla ricerca di nuove illusioni alle quali aggrapparsi. Se l’ultimo trimestre del 2018 è stato caratterizzato dal refrain dello spread che avrebbe mandato a picco la compagine giallo-blu, il sipario sul nuovo anno si alza al suono della parola “recessione”. È il nuovo totem invocato da opinionisti poco accorti e da politici bolsi perché si trasformi in nemesi della Storia vindice dell’hybris penta-leghista, colpevole di aver osato infrangere il tabù dell’inamovibilità delle élite detentrici le leve del potere. Ma come per lo spread, probabilmente anche la recessione si rivelerà, almeno per l’Italia, un mostro di cartapesta. La ripartenza degli investimenti interni attutiranno il colpo della flessione dell’export. E con una proiezione del tendenziale di crescita nel 2019 sottostimata al +1,0 per cento del Pil, è improbabile incartarsi. Cosicché, gli andamenti economici del Paese non saranno così catastrofici come, invece, sperano gli “apocalittici”. La conseguenza più ovvia sarà la tenuta del Governo, salvo l’aggiustamento degli equilibri interni nel caso di vittoria fuori misura della Lega alle elezioni europee della prossima primavera.

Niente ribaltoni, dunque, né drammatici colpi di scena con tanto di governo tecnico alle porte, ma più verosimilmente un graduale processo di cambiamento che continuerà ad incidere nella coscienza profonda del popolo italiano. Non è un nostro vaticinio, ma l’esito di un interessante studio dell’istituto di ricerca “Demos & Pi” commissionato dal gruppo editoriale l’Espresso, di cui ha dato conto Ilvo Diamanti con un articolo pubblicato su “la Repubblica” lo scorso 23 dicembre. Bisognerebbe studiarlo attentamente il XXI Rapporto su “Gli italiani e lo Stato” perché si capirebbero molte cose, ben oltre i giudizi poco lucidi di molti opinionisti politically correct, coccolati dai media.

Cosa raccontano i numeri? Qualcosa di sorprendente per chi non vive tra la gente: dopo molti anni il distacco tra i cittadini e i riferimenti del sistema pubblico non è più tale. Nel 2018 è cresciuta la fiducia verso le istituzioni rispetto al 2017. In testa alla classifica si consolidano le Forze dell’ordine, ma recuperano posizioni tutti gli alti soggetti istituzionali, in particolare quelli politici, di governo e di rappresentanza. Il Parlamento guadagna 8 punti percentuali, mentre lo Stato ne prende 10 in più. Anche i partiti migliorano, sebbene ultimi in graduatoria recuperano un prezioso +3 per cento di fiducia. “Cresce meno l’Ue (+3) a livello sovranazionale, la Regione (+1) e i Comuni (+5) in quello subnazionale”. In controtendenza ci sono soltanto il Papa e la Chiesa che perdono appeal. L’aver trasformato la custode più alta della spiritualità in una lobby dell’accoglienza degli immigrati non ha certo giovato alla sua immagine, visto che sono sempre più le persone disorientate circa la natura autentica della sua missione. Lo studio “legge” il crollo di fiducia nella Chiesa quale riflesso del declino del sacro che segna il nostro tempo storico. Si tratta di un giudizio che non sentiamo di condividere. Per quanto ci riguarda è vero l’opposto: è la perdita della domanda di sacro da parte di un’istituzione religiosa, che si è trasformata in soggetto agente nelle dinamiche profane, a giustificarne il declino.

Ma il punto cruciale resta il cambio sostanziale di atteggiamento dei cittadini rispetto alle istituzioni pubbliche che è passato da un sentimento di sfiducia ad uno di fiducia, o almeno di non-sfiducia. La mutazione, secondo gli esiti del Rapporto, si origina dal voto del 4 marzo e dall’affermazione sia dei Cinque Stelle, sia della Lega. Entrambe le forze politiche sono state percepite come portatrici del cambiamento rispetto agli assetti socio-politici consolidati. La sola ipotesi di rimozione di questi ultimi ha stimolato il desiderio di partecipazione dei cittadini alle questioni che attengono il bene pubblico. Per la maggioranza degli italiani, secondo il Rapporto, Lega e Movimento Cinque Stelle si sono trasformati da attori della sfiducia in motori della fiducia. Il che è un gran bene, a prescindere se si sia o meno d’accordo con i loro programmi. È valore aggiunto per la democrazia che la gente torni a credere nello Stato. È segno che l’azione di governo dei giallo-blu viene percepita come positiva, anche se non sono negate dai soggetti intervistati perplessità e insoddisfazioni verso singole iniziative delle quali non si colgono i possibili futuri benefici. Perché tutto ciò stia accadendo non è d’immediata decrittazione.

Un efficace contributo alla lettura del presente giunge dalla riflessione di Ernesto Galli della Loggia pubblicata lo sorso 30 dicembre sul Corriere della Sera, dal titolo: “Le élite senza ricambio”. L’illustre opinionista focalizza la sua analisi su un tratto distintivo delle élite italiane: esse non si fondano sul merito e, soprattutto, non hanno conosciuto un sostanziale ricambio negli ultimi trent’anni. Peggio, esse hanno assunto un carattere odiosamente ereditario-familiare. Il blocco dell’ascensore sociale, solo in parte giustificato dalla lunga crisi economica globale, in Italia ha acuito il deprecabile fenomeno, riguardo al ricambio delle élite, del privilegiare le relazioni rispetto alle competenze. In tutti i gangli della macchina sociale/istituzionale si sono visti troppi “figli di” accedere al rinnovamento generazionale delle classi dirigenti senza che un corretto processo di selezione lo avesse condizionato. Dalle università al mondo dei media, alle grandi burocrazie si è cristallizzata una classe elitaria “chiusa, iperomogenea e autoreferenziale” per usare le parole di Galli della Loggia. Il risultato è stato che, a un certo punto, il Paese si è scoperto succube di un’élite vecchia d’età, con scarsa presenza femminile e formata ideologicamente nel centrosinistra in base ad una cifra di perbenismo culturale “di irritante quanto superficiale assennatezza”. Il passaggio dalla consapevolezza della funzione delle élite anche in un sistema democratico alla percezione di essere precipitati in un’opprimente oligarchia è la ragione per la quale la maggioranza silenziosa ha smesso di essere tale ed ha iniziato a dare segnali inequivoci di volontà di un cambiamento, che in sé contiene germi di un processo rivoluzionario. A cominciare dall’idea che va consolidandosi nel sentire comune degli italiani dell’importanza della funzione redistributiva della ricchezza, esercitata dal Governo, per garantire la tenuta della coesione sociale in una democrazia matura d’impronta liberale quale la nostra. Ed è questo il punto che andrebbe indagato visto che spiega alla perfezione del perché allo stato attuale, pur riconoscendone i limiti e gli errori grossolani commessi, la fiducia nel Governo giallo-blu sia ancora altissima nelle intenzioni di voto degli italiani.

Ora, gli opinionisti dovrebbero capire che non serve a nulla abbaiare alla luna. Soprattutto non serve insultare le nuove forze al potere con epiteti volgari e sprezzanti giudizi privi di contenuto argomentativo. Se non si coglie il fatto che la Storia, almeno in Italia, abbia curvato si rischia di restare pateticamente fermi a fantasticare su quanti parlamentari dello schieramento avversario potrebbero “inseguire lo scoiattolo” nell’illusione di ribaltare la realtà per riportarla a come era prima. Se si è molto anziani e ricchissimi e si sono raggiunti tutti i traguardi fissati nel corso della propria esistenza ci si può anche concedere un tale bizzarro “divertissement”. Invece, tutti gli altri, che non rispondono all’identikit tracciato, sarebbe ora che si decidessero ad aprire gli occhi e a prendere sul serio ciò che gli italiani davvero desiderano.

Aggiornato il 03 gennaio 2019 alle ore 10:29