Come andiamo ripetendo da tempo, ci si chiede dove sia finita l’opposizione. E se c’è ancora. Ma la nostra, proprio come una vox clamantis in deserto, è una domanda senza risposta non solo o non soltanto per quanto riguarda l’opposizione. Il fatto ancora più grave è un altro, anzi ben altro e riguarda la politica: che non c’è o per lo meno non si vede. Si dice, non a caso, che il sistema democratico vive e sopravvive nella salvaguardia di chi dissente, di chi non è d’accordo; insomma, di chi si oppone al governo frutto di una maggioranza che ha vinto alle elezioni e il perdente armandosi con ciò di progetti alternativi, di programmi diversi, di volontà politica, appunto. Nel caso italiano sembrano mancare entrambe: la volontà e la politica.
Intendiamoci, come si canterellava anni fa a Carosello e in dialetto, tutto questo “dura minga”, non dura, non può durare. Ma intanto la Polis, che non è solo la città ma tutto ciò che sta dentro i confini di una nazione con le sue organizzazioni, fra cui i partiti, è ferma, silente, assente. In realtà c’è sempre chi si muove, chi si dà da fare, chi lavora non fosse altro perché c’è sempre bisogno di un governo, tanto meglio se eletto per via democratica, col consenso.
E un, anzi “il” Governo italiano c’è e opera, sia pure a modo suo, persino al di là e al di sopra dell’eloquio torrentizio se non di piena di un dei due vicepresidenti del Consiglio. Anche se di grandi e vere riforme, le tante sbandierate dal Nuovo che avanza(va), s’è visto poco o nulla. Aspettiamo pazientemente. E tuttavia c’è una riforma che è stata licenziata con un decreto che chiamiamo “Decreto dignità”. Doveva essere la premessa di un discorso riformatore più ampio del quale, giudiziosamente, aspettiamo il seguito anche perché il doppio e intrecciato tema di lavoro ed economia ha bisogno, come si dice, del suo tempo.
Intanto questo primo provvedimento legislativo del Governo Conte c’è, e aveva lo scopo di dare un posto fisso a tanti lavoratori, favorendo e incentivando la trasformazione di contratti a termine in contratti a tempo determinato. Un’operazione, una mission lodevole, non c’è dubbio. Ma i primi risultati o meglio i primi effetti del “Decreto dignità” non sembrano in linea ottimistica con la missione di voler trasformare in massa i contratti a termine in contratti a tempo indeterminato, confermando l’antica ma sempre attuale convinzione politica che la volontà, la pretesa, di creare posti di lavoro per decreto non può dare risultati effettivi in un sistema di economia di mercato come la nostra con i meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro. Un obiettivo del genere, semmai, è raggiungibile nei regimi totalitari. Da noi, secondo dati ufficiali, il mese di agosto 2018 ha registrato un calo rispetto allo stesso periodo del 2017, sia dei nuovi contratti a tempo determinato, sia delle assunzioni a termine, sia dei lavoratori assunti con un contratto di somministrazione (oltre 40mila posti di lavoro persi). Naturalmente occorre attendere i dati del mese di settembre ma non è affatto difficile prevedere che la linea dell’ottimismo pentastellato e leghista non sarà coronata da traguardi entusiasmanti. Soprattutto per i lavoratori.
Gli osservatori fanno notare non solo o non tanto che non ci potrà essere una inversione di tendenza, ma che la propensione alla riduzione dei nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato sarà più accentuata nei mesi prossimi. Facile per noi commentare che la mission di cui sopra, come era nelle speranze del Governo Conte, offre un risultato che è l’esatto contrario di quanto ci proponeva il legislatore col “Decreto dignità”. E l’opposizione? E la politica?
Aggiornato il 31 ottobre 2018 alle ore 09:41