Downgrade Moody’s: chi vince e chi perde

Tanto tuonò che piovve, ma non troppo. La si potrebbe raccontare così l’annunciata “sentenza” di Moody’s sul merito di credito del debito sovrano italiano, giunta a mercati chiusi nel fine settimana. Tutto come previsto, dunque.

L’Agenzia di rating statunitense ha optato per una soluzione salomonica declassando il Debito italiano da Baa2 a Baa3, ma tendendo stabile l’outlook, cioè la previsione tendenziale di breve/medio periodo. Chiamatelo pure cerchiobottismo ma è così che va la vita, anche nel mondo della finanza. Moody’s non poteva non adeguarsi ai giudizi negativi che sono piovuti da tutte le parti delle istituzioni europee sul Governo Lega-Cinque Stelle. Purtuttavia, non poteva ignorare la novità del riposizionamento strategico che i giallo-blu stanno tentando rispetto alla tradizionale politica di subalternità all’asse franco-germanico che è stata il leitmotiv dei governi di centrosinistra della scorsa legislatura.

In sostanza, Moody’s, pur aggregandosi alla scia dei “nemici” di Roma non ha mancato, prudenzialmente, di puntare una fiche sul futuro che sarà condizionato dal grado di sviluppo dei rapporti d’interesse tra l’Italia e gli Usa di Donald Trump. Manca all’appello il giudizio di Standard & Poor’s, atteso per il prossimo venerdì. C’è da scommettere che la musica non sarà diversa. Resta il problema dello spread. La si pianti una buona volta di dire che la crisi dei titoli di Stato italiani dipende dal mezzo punto di Pil di extradeficit previsto nel 2019 dai penta-leghisti. Il Debito sovrano si svaluta se sul mercato obbligazionario si offrono più titoli di quanti la domanda ne richieda. Non è dal giorno della presentazione della Nota di Aggiornamento al Def che gli investitori stranieri fuggono dai titoli italiani. È dal periodo maggio-giugno, in corrispondenza con l’arrivo al Governo dell’armata giallo-blu, che essi hanno ridotto le posizioni di rischio sul Debito nostrano. I portafogli dei non residenti hanno subito un alleggerimento di titoli di Stato e prestiti, tra aprile e giugno, di circa 59 miliardi di euro, passando da 772,2 miliardi di euro a 713,9 miliardi di euro. Il disimpegno degli investitori esteri ha impattato sull’esposizione italiana già a far data dall’inizio dell’estate.

Tenuto conto che lo stock complessivo del debito pubblico a giugno era pari a 2.341,6 miliardi di euro, la quota detenuta all’estero, calando di 35 miliardi rispetto al solo mese di maggio, è scesa al 28,3 per cento dell’ammontare complessivo. E il trend negativo è proseguito per tutto il mese di agosto con vendite di titoli di Stato per 8,7 miliardi di euro, con ciò confermando che il problema sta nell’idea stessa che a governare ci siano forze populiste, ritenute destabilizzatrici di assetti politico-finanziari consolidati. Ma non facciamo la parte dei soliti provinciali che se la prendono con l’odiato straniero! I primi a volere segare le gambe ai governanti in giubba giallo-blu stanno in casa nostra. Bisogna volgere lo sguardo a quel milieu di poteri dislocati in ordine sparso tra istituzioni pubbliche e mondo della finanza che si è assunto l’onere di fare opposizione all’attuale maggioranza politica in luogo del nulla esistenziale di forze partitiche del tutto incapaci di proporsi come alternativa credibile ai penta-leghisti. In particolare, il settore bancario si è chiamato fuori dallo sforzo collettivo di sostenere il Paese nel momento del bisogno.

A fronte del graduale abbandono degli investitori esteri ci si sarebbe aspettato un rafforzamento dell’impegno delle banche nazionali a sostenere gli acquisti di Titoli di Stato italiani, com’è solitamente avvenuto in passato. Una decisa azione di bilanciamento della domanda avrebbe permesso di tenere a bada i picchi di rendimento dei titoli medesimi. Invece, dallo scorso giugno, le banche anziché aumentare hanno rallentato. Nel mese di luglio, stando ai dati resi noti dalla Bce, gli istituti italiani hanno acquistato Debito pubblico netto per 4 miliardi di euro, contro i 14 miliardi investiti a giugno e i 28 miliardi di euro a maggio. In agosto, poi, gli istituti nostrani hanno cominciato ad alleggerire il portafoglio obbligazionario, vendendo titoli di Stato per un controvalore di 9 miliardi di euro. Non ci piacciono i Cinque Stelle e mai li voteremmo, ma fare opposizione a ciò che non ci piace usando armi proibite come giocare allo sfascio con i titoli del Debito pubblico è inaccettabile. Saremmo pure inguaribili romantici ma per noi vale ancora la massima: “My country, right or wrong”. Ma se è per primo chi vive in casa nostra a remare contro perché mai non dovrebbero farlo gli estranei? Gli investitori esteri guardano al comportamento di quelli interni: se questi ultimi si danno alla fuga dal nostro Debito sovrano non saranno gli altri a restare con il cerino acceso tra le mani.

Quindi, nessuna meraviglia che lo spread s’impenni. Attenti, però! Talvolta i suonatori andati per suonare vengono suonati. Oggi dal mondo bancario si levano grida d’allarme per ciò che potrà accadere al rating dei singoli istituti in presenza di un downgrade del Debito sovrano. Gli “onesti” banchieri piangono per le perdite di valore subite in Borsa. Sono gli stessi che non hanno fatto una piega, pensando di essere furbi, nel liberarsi dei titoli di Stato equiparati a puteolente zavorra. Se non fosse che c’è di mezzo il sistema del credito alle famiglie e alle imprese verrebbe da dirgli: ben vi sta se avete beccato dritto sulle gengive un “doom loop”!

Aggiornato il 23 ottobre 2018 alle ore 11:13