Pubblichiamo il manifesto-proposta scritto dal direttore de “L'Opinione”, Arturo Diaconale, e pubblicato su “Il Tempo” dell’8 settembre. All’intervento ha risposto, sempre su “Il Tempo”, il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Maria Stella Gelmini. Invitiamo tutti i nostri lettori a sottoscrivere il manifesto, inviando la loro adesione all’indirizzo e-mail [email protected].
I due Mattei, Salvini da una parte e Renzi dall’altra, sono convinti che la parabola politica di Silvio Berlusconi sia ormai vicina al termine e che, nel momento in cui risulterà definitivamente esaurita, la sorte di Forza Italia sarà segnata: una parte fagocitata dalla Lega in nome di un nuovo centrodestra e una parte risucchiata da un Partito Democratico nuovamente renziano e proiettato a diventare il punto di riferimento di un centrosinistra di stampo macroniano.
Rispetto alla comune convinzione dei due Mattei, fondata sul loro dato anagrafico contrapposto a quello del grande leader al tramonto, il gruppo dirigente di Forza Italia sembra segnato da un grave deficit di elaborazione politica. La maggioranza degli esponenti di punta del partito, quelli che si sono autogarantiti con candidature blindate in occasione delle ultime elezioni, sono attestati ufficialmente a sostegno della posizione ortodossa interpretata da Antonio Tajani. Quella che colloca il partito berlusconiano all’opposizione e cerca, pur ribadendo la piena validità del centrodestra, di accentuare il massimo della concorrenzialità nei confronti della Lega salviniana. Tajani e gli ortodossi pensano alle elezioni europee e credono che l’alleanza di governo tra leghisti e grillini sia destinata a esplodere in tempi rapidi. Per questo accentuano le critiche e la contestazione a Salvini e insistono sulla riproposizione del ruolo carismatico e leaderistico del Cavaliere. Nella speranza che l’arroccamento riesca a evitare lo sfarinamento di Forza Italia e costringa Salvini ad ammettere che in caso di rottura con il Movimento 5 Stelle solo il ritorno all’alleanza con il partito berlusconiano gli consentirebbe di vincere le elezioni e conquistare da leader del centrodestra la guida del governo.
La posizione degli ortodossi sconta, però, il peccato originale compiuto da Berlusconi nell’aver dato via libera a Salvini riguardo la nascita del governo giallo-verde. Essere alleati nel centrodestra a livello locale e conflittuali nella politica nazionale pone Forza Italia in una posizione di grande ambiguità. Che la rende incapace di incidere positivamente sull’azione di governo della Lega e la espone quotidianamente all’accusa di Salvini di essere alleato con il Pd all’opposizione. Di questa difficoltà sono testimoni i fermenti che sotto la coltre dell’ortodossia si muovono all’interno dei quadri intermedi, degli elettori e dei simpatizzanti forzisti. Fermenti, come quelli espressi dal Governatore della Liguria Giovanni Toti e dai giovani promotori della corrente “Forza Salvini”, che non si limitano a chiedere un atteggiamento diverso nei confronti dell’alleato leghista ma sollecitano l’apertura di un dibattito per un rinnovamento radicale non solo della linea politica ma anche del gruppo dirigente forzista.
Ma quale potrebbe e dovrebbe essere l’atteggiamento diverso di Forza Italia nei confronti di una Lega che reagisce alle critiche del partito berlusconiano lanciando un’Opa ostile e cercando di sfondare nell’elettorato forzista anche nelle regioni meridionali per mandare all’aria la ridotta degli ortodossi? Non potendo puntare totalmente sulla scelta dell’opposizione dura, che fatalmente provocherebbe contraccolpi nell’alleanza di centrodestra nelle regioni e nei comuni, Forza Italia può trovare un diverso e più proficuo ruolo assumendo una posizione radicalmente diversa rispetto alla Lega e al cosiddetto governo del cambiamento. La definizione di questo ruolo passa fatalmente da una analisi del centrodestra. Si tratta di una formula da difendere e rinforzare o in via di inevitabile esaurimento?
Se la ventennale alleanza viene considerata in coma irreversibile, non c’è altra strada che quella della rottura con la Lega e dell’opposizione dura e intransigente al governo del cosiddetto cambiamento. Ma una scelta del genere, oltre a provocare una inevitabile deriva di parte di Forza Italia nell’area del Pd renziano, provocherebbe contraccolpi devastanti nelle giunte regionali e comunali amministrate dall’alleanza. E questi contraccolpi potrebbero accelerare al massimo il disegno di spartizione del mondo forzista perseguito dai due Mattei. Se invece la strada della rottura e dell’opposizione è preclusa, l’unica percorribile, senza subire l’usura dell’ambiguità di essere alleati nelle province e nemici a Roma, diventa inevitabilmente quella di ricostruire l’unità del centrodestra anche in Parlamento assicurando a Salvini, riconosciuto da Berlusconi come il leader dello schieramento moderato, una forza di oltre il 40 per cento (queste le indicazioni degli ultimi sondaggi) da far pesare negli equilibri e, soprattutto, negli indirizzi di governo.
Non si tratta di ipotizzare un nuovo Pdl come propone Giovanni Toti o di sottoporsi passivamente al predominio (alle volte prepotente) del ministro dell’Interno. Più semplicemente si tratta di entrare autonomamente in maggioranza infischiandosene delle pregiudiziali negative del Movimento Cinque Stelle ed, eventualmente, anche delle perplessità o preoccupazioni degli stessi leghisti, per contribuire a indirizzare il cambiamento non verso la decrescita e la paralisi del Paese ma verso lo sviluppo, il potenziamento e il rilancio delle attività produttive italiane. La tragedia di Genova è la spia inequivocabile dell’indirizzo da dare al cambiamento. Quello della ricostruzione di un Paese che dalla fine degli anni Ottanta ha bloccato il naturale adeguamento delle proprie strutture portanti risalente alla modernizzazione dei primi vent’anni del secondo dopoguerra. Una scelta del genere, ovviamente, non comporta subordinazione e non esclude affatto la possibilità di dissentire sugli atti non condivisi del governo. Al contrario, se affiancata da una azione di denuncia incessante del neo-maoismo informatico e della deriva verso la decrescita infelice di Grillo e Casaleggio, può far uscire Forza Italia dalla contraddizione di aver dato via libera a Salvini sul governo per poi essersi attestato all’opposizione insieme con il Pd.
Il partito fondato da Silvio Berlusconi, che nasce proponendosi come fattore di cambiamento, di innovazione, di modernizzazione rispetto al passato, rappresenta ancora un importante punto di riferimento per una parte del ceto medio e popolare oltre che di larghi settori dei ceti produttivi. Queste importanti componenti della società temono che nel medio periodo il governo diventi sempre più a guida grillina producendo una sempre maggiore paralisi regressiva e continuano a sperare che Forza Italia possa svolgere una funzione di riequilibrio tra il sovranismo leghista e l’egualitarismo pauperista. Salvini compirebbe un clamoroso errore se volesse ignorare queste realtà o pensare di rappresentarle tutte rimanendo fermo a una identità che non ha tratti liberali, riformisti, popolari.
Forza Italia in maggioranza darebbe rappresentanza a questi ceti, aumenterebbe la forza contrattuale di Salvini nei confronti di Luigi Di Maio e darebbe ai berlusconiani un ruolo di coscienza critica del cambiamento che renderebbe più difficile l’applicazione del piano dei due Mattei. Sul piano concreto, poi, l’ingresso di Forza Italia in maggioranza risolverebbe il caso Foa sbloccando la Rai e favorendone un cambiamento in chiave necessariamente pluralista. Darebbe maggior peso alla politica industriale chiesta dai ceti produttivi e fondata non sul blocco ma sul rilancio delle grandi infrastrutture (Tav, Tap, Ilva, pedemontane, gronda di Genova, ecc.) indispensabili per la modernizzazione del Paese. E, infine, consentirebbe di porre con forza quella riforma della giustizia che Salvini ha scoperto oggi essere una esigenza prioritaria per il futuro del Paese ma che per i liberali e i garantisti di Forza Italia costituisce da sempre l’obbiettivo indispensabile per far uscire la società italiana dalla paralisi seguita alla rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite.
Certo, per essere coscienza critica ci vuole coscienza e capacità di analisi critica. Cioè quelle caratteristiche che Antonio Tajani possiede ma che, purtroppo, sono tragicamente assenti nei “blindati” e negli “autogarantiti”. Se dunque Tajani vuole svolgere fino in fondo il suo difficile compito, deve necessariamente promuovere un radicale rinnovamento del gruppo dirigente favorendo il confronto e la discussione a tutti i livelli in un partito che se non torna a essere movimento è condannato all’esaurimento.
L’impresa non è facile. Le discussioni e i dibattiti nei partiti leaderistici sono visti (soprattutto dai cortigiani del leader) come fattori di disgregazione. Ma il confronto dialettico è vita. La chiusura è eutanasia. O meglio, la preparazione per il funerale indiano del Capo, quello in cui nella tomba, a far compagnia alle spoglie del condottiero, finiscono mogli, cavalli e famigli.
Aderisci al manifesto scrivendo all'indirizzo email [email protected].
Aggiornato il 14 settembre 2018 alle ore 13:18