Fra le numerose scomparse di questo (breve) governo si segnalava, qualche giorno fa, quella della riforma elettorale. Qualcuno anzi aveva esclamato, come nel Carosello d’antan: cucù, la riforma non c’è più. Sembrava addirittura che fosse il provvedimento più atteso ma il governo (e i partiti, pardon i due partiti) non vi ha dedicato una riga e, detto inter nos, non si sa a che cosa servirà fra un anno sia ai pentastellati che alla Lega di Matteo Salvini.
Ma se questa riforma s’è arenata in uno dei tanti, troppi messaggi di chi oggi è al potere, va comunque detto che anche per il Presidente del Consiglio vale il detto: cucù, il Premier non c’è più. Non solo, ma se ci si fa un po’ caso fra i nostri conoscenti, la gran parte di costoro ignora addirittura il nome dell’attuale Presidente del Consiglio dei ministri, Giuseppe Conte (nomen omen), che non solo o non tanto è la discrezione in persona ma, soprattutto, non sembra affatto partecipare e vivere quotidianamente, per horas, le situazioni, le problematiche, gli accordi, i conflitti, le discussioni di tutto ciò che non è solo il suo campo e che riguarda la politica tout court. Già, ma quale? A trovarla, ma se ne sono perse le tracce.
Intendiamoci, Conte è una gran brava persona e pure intelligente avendo, come si dice in gergo, mangiato la foglia fin da subito, notando cioè che lo spazio a Palazzo Chigi s’era oggettivamente ristretto per via dell’occupazione del medesimo da parte dei due “vice”, in una gara continua e costante non soltanto a chi fa la dichiarazione più ambita dalle tivù, ma a chi si limita, per l’appunto, alle dichiarazioni promesse, tant’è vero che l’italiano che oggi conta di più in Europa e nel mondo, cioè Mario Draghi, ha detto l’altra sera che nessun progetto, richiesta o domanda gli è fino ad oggi pervenuta da Palazzo Chigi. Appunto.
Il punto vero oggi riguarda i due vice premier ai quali, come ognun sa, nessuna gara fra chi alza più la voce in tv e sui media può o potrà essere funzionale a ciò che davvero conta in una vicenda governativa complessa come questa in cui Salvini, alleato elettorale di Silvio Berlusconi, non ha perso tempo ad allearsi con chi del Cavaliere voleva fare strame (politico), tant’è che soltanto qualche giorno fa l’ineffabile e incontenibile Luigi Di Maio ha messo nel mirino la stessa azienda berlusconiana manco fosse peggio di un Fausto Bertinotti. La questione, allora, ha a che fare proprio con la consistenza dei due; cioè, a essere più precisi, con la durata del loro impegno governativo, al di là e al di sopra delle questioni più urgenti quali l’immigrazione, pur scorgendo in questa emergenza una odierna divaricazione fra il ministro degli Interni e quello dei Trasporti a proposito degli ultimi profughi, in ordine di tempo, salvati e sbarcati sul suolo patrio.
Naturalmente nessuno dei due mostra di voler rompere il patto e si mostrano concordi con tante dichiarazioni ufficiali in proposito. E non portano a rotture le differenze fra un Salvini onnipresente e autoritario e un Di Maio più debole e astratto. Una forza contro una debolezza, ma a parole e per ora. Il fatto è che sono molto diverse le differenze fondamentali fra i due partiti, dei quali l’uno è nato dalla fantasia e dall’irruenza, spesso e volentieri insultante, di un comico di successo che s’è trovato fra le mani un movimento senza quadri, dirigenti, esperienze, preparazioni; e l’altro ben radicato da decenni sul territorio, nei comuni, nelle regioni, negli enti locali, nazionali, governativi ecc..
Non solo, ma il Movimento 5 Stelle si differenzia per dir così ideologicamente dalla Lega per la sua adesione alle istanze contestative, ai richiami ideologici contro il potere tout court, alla lotta contro la o le Caste, allo slogan conseguente dell’uno vale uno che, a ben vedere, segnala a suo modo la fine della democrazia rappresentativa e del liberismo in favore del nuovo che avanza informatico e twittarolo, magari con l’appendice di una estrazione a sorte dei futuri rappresentanti della nazione. La Lega post-bossiana è, per dir così, l’esatto contrario con le sue profonde radici nel Paese, le sue esperienze nella gestione delle cose pubbliche, i suoi militanti e i suoi quadri ai diversi livelli, i suoi programmi, la sua organizzazione e la sua stessa appartenenza ideologica e politica di destra, come conferma il loro leader. Altro che uno vale uno.
Su queste differenze, che non sono affatto nominali ma sostanziali, si giocherà il futuro sia del Governo Conte sia dei suoi due “vice”, sia dei due partiti che rappresentano e che a qualsiasi analisi, anche la più superficiale, appaiono distinti, diversi e distanti. Oggi c’è il potere come colla. Durerà?
Aggiornato il 12 luglio 2018 alle ore 10:53