Di Maio: un linguaggio pubblicitario, e poi?

Forse in una delle più belle battute di Woody Allen sta il vero movente dell’auto-esclusione di Silvio Berlusconi da questo governo. “Non mi iscriverei mai ad un club che accettasse fra i suoi iscritti uno come me”.

In effetti, il club-governo che si sta (o starebbe) mettendo in piedi dal duo Salvini-Di Maio, non sembra davvero uno dei più consistenti e coerenti non tanto o non soltanto per il carattere dei due facitori quanto, soprattutto, per la radicale o quasi differenza del modo di governare di Lega e M5S. Che è di certo insita, da un lato, nel programmatico voler distruggere tutti di casaleggiana fattura e dall’altro dalla essenza del pensiero-azione leghista, ovvero un occhio di riguardo al Nord e un altro all’economia reale. Del resto, basta guardare, da un lato a quanto (non) stanno facendo i sindaci di Roma e di Torino e dall’altro ai governi regionali di Lombardia e Veneto a guida leghista per un giudizio non fazioso.

E comunque la scelta di Forza Italia, al di là delle ovvie tendenze interne fra quelli a favore e quelli contro il governo, è tutta farina del sacco berlusconiano. Farina, non crusca, intendiamoci sol che si guardi per un attimo, solo per un attimo alla pressoché unica ideologia grillina imperniata su quello slogan “uno vale uno” che tradotto nella sua sostanza più vera non è altro che qualunquismo produttore, a sua volta, di quel populismo che non può non fare danni se assurto al governo di una grande nazione come la nostra.

Intendiamoci, il trentadue per cento pentastellato del 4 marzo è un dato di fatto, e non soltanto un risultato, della volontà popolare che va sempre e comunque rispettata. Il punto vero, a oltre due mesi di trattative e di occupazione sistematica dei media, soprattutto televisivi, resta sempre e purtroppo inevasa la richiesta che da tempo, da ben prima di quel 4 marzo, è stata rivolta ai grillini riferita, né più né meno, che al loro programma, posto che il loro giovane leader ha sempre preferito la sloganista alla programmaticità, la pubblicità alla realtà, le promesse ai fatti.

E il bello, o il brutto fate voi, è che Luigi Di Maio non sembra voler smettere, sia pure nelle apparizioni televisive, quel linguaggio degno del tutto dei pubblicitari che dagli anni Sessanta ci inseguono con parole d’ordine, con richiami, con slogan, appunto, che nel caso dimaiano si esprimono e si diffondono nell’etere con una messaggistica indubbiamente datata ma pur sempre efficace nel suo abbinamento di passato e di presente, di vecchio che resiste e di nuovo che avanza e di nuovissimi, come loro, che vogliono, fortemente vogliono “fare le cose ferme da trent’anni”.

Auguri e figli maschi, stavamo per dire, se non fosse che la messaggistica per un oggetto di consumo o una vacanza alle Canarie, è ben diversa da quella della politica, di ieri, di oggi e di sempre. A parte il fatto che qualsiasi annuncio pubblicitario non può non  poggiarsi su basi veritiere mentre quel paese fermo da trent’anni e che finalmente si muoverà grazie a Di Maio è un Paese della irrealtà storica, politica, economica e democratica. Il sospetto di una simile sloganistica dell’Italia che risorge grazie al miracolo grillino viene dalle parole d’ordine lanciate in campagna elettorale, vinta, peraltro, col no a tutto e tutti, dalla flat tax al Jobs act, dal conflitto d’interessi all’Euro fino alle scie chimiche. E adesso?

A ben vedere, ci sembra che il primo round sia andato a Salvini che, pur non alieno alle sparate populiste, ha un’esperienza politica superiore ridimensionando un Di Maio che dovrà comunque raggiungere la meta di Palazzo Chigi se non vuole essere ulteriormente dimensionato se non dimissionato da non pochi elettori del M5S che non hanno affatto compreso i suoi ondeggiamenti fra M5S e Pd con una resurrezione della politica dei due forni di andreottiana memoria, cioè dei due forni si “sceglie quello che cuoce meglio e costa meno” tanto più che un elettorato oltranzista e risentito, urlante contra omnes, non può non considerare quell’uscita una sorta di residuato della peggiore partitocrazia.

E non ha dunque torto il Cavaliere a restituire alla battuta di Woody Allen un significato squisitamente politico.

Aggiornato il 11 maggio 2018 alle ore 18:39