No, non vogliamo scomodare il grande Leonardo Sciascia che nel suo più bel romanzo (un racconto lungo, diceva lui) dipingeva la sua Sicilia con lo sguardo dell’ufficiale dei carabinieri di Parma alle prese con il problema dei problemi siculi, la mafia.
No, in Friuli-Venezia Giulia la mafia (per fortuna) c’entra come i cavoli a merenda e, semmai, il paragone preso per i capelli funziona soltanto e se il dramma siculo, o meglio del nostro sud, va ben oltre i picciotti di una volta, abbracciando una condizione di arretratezza e di disagio dei quali, peraltro, gli stessi “meridionali” sono, a un tempo, vittime e responsabili. Vedremo al prossimo appuntamento elettorale.
Osserviamo, dunque, il Friuli del dopo voto. Un voto di certo non disatteso ma di certo esemplare proprio nel senso oscuro e misterioso che il giorno della civetta esprime là dove esplodono, insieme ai successi - e alle tenute - i limiti politici vistosi.
Limiti, non tanto o soltanto pentastellati, quanto, piuttosto, di una politica del grido, dell’insulto, della intolleranza, della maldicenza nei confronti dell’avversario, più o meno tutti, col risultato che quella che si chiama Polis da millenni rischia di ridursi a un immenso cortile dove l’urlo del più forte si fa strada a gomitate per raggiungere successi di voto, in nome del cosiddetto “nuovo che avanza”, ignorando che sono proprio tali sistemi quelli che svuotano, elidono, uccidono la politica stessa, ovverosia la convivenza fra avversari. Ma, prima o poi, arriva il giorno in cui la civetta canta.
E racconta una storia che ci insegna tante cose, persino quelle acquattate in certi risvolti in sottotono di un Luigi Di Maio autopromosso a capo di un Governo qualsiasi, ieri con Salvini subito dopo con Renzi, col pretesto di una vittoria, che pure c’è stata e squillante ma, forse perché obnubilato dal fatale squillo, il Di Maio ha dimenticato una cifra, non meno fatale, riferita al quasi settanta per cento degli italiani che non gli hanno detto di sì.
Altra omissione è quella che il nostro direttore ha con lucida simpatia irriso nella riedizione dimaiana della leggendaria politica dei due forni ritornata in auge in presenza, da anni, di uno scenario contraddistinto dallo scontro frontale e dalla lite senza esclusione di colpi in cui anche Di Maio ha eccelso, senza peraltro un qualsiasi seppur velato cenno di scuse oggi che la delegittimazione sembra ancora l’arma più usata, magari col ricorso alla piazza.
Già, la piazza di cui qualcuno ha ricordato l’exploit di vent’anni fa contro Bettino Craxi davanti al Raphael (noi eravamo presenti) con le monetine lanciate insieme all’urlo di delinquente e i pugni giustizialisti minacciosi; scena non dimenticabile che ben due film in preparazione faranno rivivere, col senno di poi, immaginiamo. E il poi, il dopo, non sembra finire se è vero come è vero non solo o non soltanto perché non basta una monetina per cambiare, ma demonizzare, delegittimare l’avversario è la morte della politica, tout court. E dei partiti, aggiungiamo, i partiti che vent’anni fa venivano tutti insieme accomunati dal grido di “ladri, ladri”, tutti corrotti, tutti a casa, se ne sono andati. Ma non è bastato al gorgogliare giustizialista e ingiurioso del grillismo di lotta e di governo se è vero come è vero che quel grido d’infamia erga omnes ha fatto tanta strada nella non-politica e nell’assenza dei partiti storici da autopromuoversi a capi di governo. Peccato che ci voglia la maggioranza più uno dei voti. E peccato, per una strabordante genia di distruttori, sia giunto dal Friuli un giorno da segnare in rosso sul calendario. Il giorno della civetta, appunto.
Aggiornato il 30 aprile 2018 alle ore 21:01