Maldicenza, Renzi fa il verso a Grillo

Ebbene sì, spesso e volentieri una certa politica sembra fatta da quella categoria speciale di non umani o quasi umani che va sotto il nome di morti viventi, come puntualizzava ieri il nostro direttore. E il caso invero, emblematico dello stantio se non ridicolo ricorso allo schema fascismo-antifascismo la dice lunga. Il fatto è che, altrettanto spesso, si ricorre ad un sistema non meno subumano e non meno simbolico che è quello della maldicenza. Anche in una frase, in un commento o in poche parole, magari estemporanee, magari buttate lì per una platea giustizialista onde trarne benefici elettorali; il parlar male del socialista, se non addirittura di un grande leader come Bettino Craxi. Spunta la maldicenza di un Matteo Renzi che avrebbe ben altro da dire e da fare per il suo Partito Democratico in discesa libera; e chiedere generiche scuse dopo, serve a ben poco proprio in ragione dell’antico detto che “giammai ti pentirai di aver taciuto, sempre di aver parlato!”.

In politica, in questa politica soprattutto di una parte, parlare male del nemico è a tutti gli effetti una malattia che, come spesso accade, non solo o non tanto viene trasmessa a chi sta vicino, ma in molti casi si ritorce contro il diffusore secondo quel tipico ribaltamento che un grande proverbio (scusateci l’abuso di questi antichi ma attuali intercalari) riassumeva con un “tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”. Del resto, è sempre un Marco Fabio Quintiliano di duemila anni fa, riveduto da un poeta eccelso come Giacomo Leopardi a rammentarci che “maledicus a malefico non distat nisi occasione”, ovvero che “se gli si presentasse l’occasione, invece di male parole sarebbe pronto alle male opere, il maldicente con la sua brigata”.

Tutto questo per vedere da vicino e capire meglio il sistema del parlar male, del biasimare, dell’aggredire tutto e tutti, del considerare l’avversario politico un nemico da battere costi quel che costi, è una prassi strausata da parte della brigata grillina sotto la guida di un Luigi Di Maio, sia pur sorvegliato dal duo Grillo-Casaleggio laddove quest’ultimo pare sia quello che dà il là agli slogan più anti e più cruenti. Il grillismo è bensì ingrassato anche grazie ad un sistema mediatico che lo ha difeso e sorretto ben al di là dei suoi ben scarsi meriti e dei suoi fantasmagorici programmi in nome di un’insaziabilità di demolizione contro la politica, la casta, la corruzione, la truffa, gli stipendi parlamentari e così via. Ma molta farina è del suo sacco, nel senso che l’urlo sistematico “contra omnes”, contro tutti gli altri (partiti), si alimenta a sua volta di una sorta di corruzione, (è proprio il caso di dirlo) della morale, quella vera, immortale, autentica, la sola da cui trarre benefici ed esempi.

Il moralismo non è solo una derivazione, ma un autentico tradimento della morale strumentalizzata in funzione di una guerra al nemico, colpendolo dove fa più comodo. Una guerra che ha i suoi punti fermi, una sorta di decalogo, basato su quella mala pianta del giustizialismo che, in abbinamento con giudici e media, è cresciuta senza fermarsi dal 1992 e seguenti. Ed è così che l’indagato diventa subito un fuorilegge trasformando un’indagine appena avviata in una condanna definitiva, derivandone poi il termine di impresentabili per cui un Di Maio si è prestato a predicozzi in televisione, per farsi bello senza neppure un sospetto circa eventuali effetti di ritorno. E c’è il punto obbligato, il grido quotidiano, l’empito dell’assalto con quel “viva la gogna!” che raccoglie o vorrebbe raccogliere gli elettori in un mix di infamie peraltro senza giustificazioni vere.

Sappiamo che l’aver privilegiato da Di Maio e compagnia cantante, la cultura se non la coltivazione intensiva del sospetto, non poteva non poggiare sulla performance quotidiana preferita, cioè la denigrazione dell’avversario, la sua distruzione politica, la sua demolizione non morale ma moralistica. E il risultato? Basta rileggere alcuni nomi delle liste elettorali pentastellate per cogliere il senso più vero di quell’impresentabilità gettata in faccia agli altri, a parte l’ex “Iena” Dino Giarrusso che ha fatto il bullo a spese altrui o il povero massone, Catello Vitiello, candidato costretto a dimissioni peraltro impossibili, e ci fermiamo qui col sublime “chi la fa l’aspetti!”. Per ora.

Aggiornato il 14 febbraio 2018 alle ore 08:02