Si fa in fretta ad accusare Tizio e Caio (soprattutto Beppe Grillo) di populismo e mettiamoci pure Matteo Salvini. E Silvio Berlusconi, direbbe qualcuno? Ma già col Cavaliere occorre distinguere, non generalizzare, non liquidare ché di populismo sarà pure non intoccata la sede di Arcore, ma c’è anche dell’altro, molto altro, esattamente il tanto che è necessario per fare del vocabolo di partenza, il popolo, una fonte che sarà pura e limpida ma, proprio in quanto tale, destinata a non rimanere così in eterno.
Per cui si è populisti, da leader, intendiamoci, quando interessa nel dibattito politico, per una replica, uno slogan, un annuncio programmatico, ma poi le cose cambiano e pur rimando il populus l’argomento centrale, ne derivano le esaltazioni, le riduzioni a propaganda, i toni eccitati, le insistenze demagogiche. La demagogia, appunto. La cui risposta è sempre quella: il riformismo. Demagogia che è stretta compagna, direi pressoché indivisibile, del popolo e/o populismo.
Già i nostri antenati latini avevano del populus, assurto poi a grande ruolo istituzionale come SPQR, idee abbastanza chiare e, al tempo stesso, diversificate a misura del momento, dell’occasione, del comizio, del governo. E i grandi testimoni scrittori e poeti latini ne tracciavano per dir così le linee convergenti e divaricanti, nel bene e nel male nella misura con la quale ne misuravano gli effetti.
Per cui, di un grande come Quintiliano ricordiamo quell’immortale massima: populus loquax semper et malignus. Mentre un grande Tacito: populus est novarum rerum cupiens pavidusque, e si capisce come già duemila anni fa un popolo amante delle ciarle (loquax) era contemporaneamente avido eppur timoroso (cupiens pavidusque) delle novità. Appunto. E ci pensava un immenso eppure opportunista Cicerone a mettere le cose in ordine incidendo nel marmo che il populus non è una comunanza qualsiasi, ma un’associazione di individui uniti dal comune consenso del diritto e dell’utile (iuris consensu et utilitatis communione sociatus). E finiamola qui col latinorum, direbbero in molti. Il fatto è che fra i demagoghi e populisti da strapazzo che ci circondano, forse nessuno sa niente, oltre che del latinorum, delle lucide ed eterne considerazioni circa il popolo, ma, semmai, e anche rimembrando qualche rara e confusa reminiscenza scolastica, la sfruttano, la piegano, la strumentalizzano per se stessi; anzi, per dirla sempre in un latino sempre attuale: pro domo sua.
Uno come Luigi Di Maio, ormai divenuto un protagonista rispettatissimo di telegiornali, special, talk-show, nei suoi eloqui a proposito di politica, tenta sempre di occultare nei toni da statista (che tutto il mondo ci invidia) il cattivo genio del populista, di colui che trova, ammonisce, indica al ludibrio e alla vergogna della mitica “ggente” un colpevole, un delittuoso essere, un infame da seppellire nel fango, mentre il riformista fa l’opposto, ovvero tenta sempre di fare la cosa più giusta e più necessaria: cerca una soluzione, una risposta che probabilmente è ancora parziale, ma è tipica di colui che vuole andare avanti, raggiungere un obiettivo nell’interesse generale. Peraltro, di un Di Maio e dei tipi come lui con lo stampo (di tolla) in faccia della ditta e degli interessi di Casaleggio, si potrebbe anche evocare un altro illustre e insuperato narratore di storie e di uomini, come l’immortale Alessandro Manzoni. Soprattutto di personaggi passati dalla leggenda storica alla realtà fattuale, da un romanzo a una sorta di immutabile contemporaneità che si sposa e si esalta passando dalla parola alle immagini, dal racconto alla verità, dalla pagina alla tivù. È il protagonista di questa campagna elettorale, che viene da lontano ed è sempre fra noi: l’untore!
Aggiornato il 07 febbraio 2018 alle ore 08:10