La Lega senza Nord

L’interrogativo che va per la maggiore, peraltro di non difficile risposta, tocca da vicino le leggendarie mura (politiche) di Arcore: questo Matteo Salvini è considerato, da Silvio Berlusconi, un decisivo compagno di strada negli impegni vicini e lontani dell’alleanza di centrodestra?

La domanda è la stessa di non pochi curiosi che guardano alla politica ed è tanto più urgente quanto più si va delineando il percorso di Salvini, il cui motore non è ovviamente messo in discussione. Anche perché un centrodestra senza la Lega non sembra, almeno a naso, un’ipotesi così fattibile, anche se Salvini sta facendo cose ben diverse da quelle del vecchio Senatùr. Intendiamoci, Salvini non è Umberto Bossi e dunque può cambiare la Lega come e quanto gli pare. Persino il cambio del nome del partito è consentito a un leader, peraltro disabituato, anche da Bossi, alle discussioni interne.

La Lega non è mai stata un simbolo della dialettica intra moenia. Il punto vero di oggi è tuttavia un altro. Ha bensì a che fare con una parola in meno sul sito ufficiale leghista, ma se la parola tolta è “Nord”, il problema merita qualche ulteriore riflessione. Sì, perché sono in arrivo le elezioni siciliane e, a ruota, quelle politiche generali. E Salvini è subito atterrato in Sicilia, e non a caso. Non a caso, cioè, senza il Nord fra i piedi. Fiere le proteste di Bossi, ma gli è stato fatto più o meno rispettosamente notare che cosa fatta, capo ha. La politica salviniana è dunque diversa da quella tradizionale ma l’operazione, legittima fin che si vuole, comporta comunque atteggiamenti e posizioni i cui cambiamenti non possono non essere politici. Anche e soprattutto perché non si tratta soltanto di un cambio nominalistico.

La strategia salviniana, che nutre una particolare pressoché irriducibile idiosincrasia per la cosiddetta grande alleanza cui invece il Cavaliere è sospettato di volgere ogni tanto gli occhi, guarda al Paese nel suo insieme, ben oltre quel Lombardo-Veneto dove, con Roberto Maroni e soprattutto con Luca Zaia, raccoglie i suoi allori elettorali sperando di arricchirli con un buon successo nella Trinacria. Dove la scomparsa del Nord dal simbolo non è soltanto un gesto di buona creanza anche ai fini di recuperare dei bei voti, ma comporta una serie di effetti indotti, il primo dei quali è proprio quello sull’essenza stessa di una alleanza politico-elettorale. La cui guida, affidata localmente a uno sperimentato Nello Musumeci, non è ovviamente messa in discussione, mentre più complessa non potrà non essere la dialettica interna nella misura con la quale sia Salvini che, soprattutto e a maggior ragione, Berlusconi, appaiono come inevitabili concorrenti alla leadership dell’alleanza, dapprima con sintomi e poi con effetti politici.

Legittima fin che si vuole questa concorrenza, ma attenti ai sintomi chiamiamoli così di differenziazione nei confronti dei due avversari, a cominciare da quello meglio messo, cioè il Movimento 5 Stelle. Berlusconi ha più volte nettamente respinto qualsiasi tipo di alleanza con Beppe Grillo che ritiene né più né meno che un clown demagogico e populista e basta mentre Salvini (populista non meno di Grillo) proprio l’altro giorno ha dichiarato che, nel caso in cui dopo un risultato nazionale senza vincitori lui dovesse chiamare qualcuno, non chiamerebbe né Gentiloni né Renzi: “Chiamerei Grillo!”.

Chi si somiglia si piglia, recita l’antico adagio. E la stessa cosa potrebbe accadere anche in Sicilia, una regione che spesso ha anticipato i tempi romani, terra considerata da molti come un vero e proprio laboratorio. Politico.

Aggiornato il 30 ottobre 2017 alle ore 17:27