Morte assistita: talk-show e mass media silenti

Mi capita a volta di gridare dentro di me, a bocca aperta, quanto mi manca Marco Pannella! Sì, perché ci sono momenti, occasioni e situazioni - non solo politiche ma esistenziali - nelle quali il grande Marco riusciva a toccarci la mente e il cuore con la sue indicazioni, il suo invito a guardare lucidamente e pure legislativamente problematiche che riguardano tutti noi individui, fra cui il “super-tema” della morte. E meno male che lo spirito pannelliano continua ad aggirarsi in quel che resta - poco in verità - della politica e a indicarci quella che definiamo una via d’uscita.

Intendiamoci: non dico sia piacevole e nemmeno frequente il discutere di una questione che ha a che fare con la vita e con la morte, soprattutto con la morte. Non quella che arriva per tutti, attendendola o no e nemmeno quella che ci si procura, in solitudine, in abbandono, in disperazione. Che si chiama suicidio o togliersi la vita.

No, il parlare, anzi il non parlare e quindi il non discutere nel caso della vicenda del deejay “Fabo”, Fabiano Antoniani, toltosi la vita in Svizzera, è stata la vera cifra, a parer nostro negativa e inquietante, di quanti, al contrario e sono tanti, troppi, straparlano, urlano, titolano e gridano, specialmente nel devastante “talkshowismo” all’italiana. La vicenda di Antoniani riguarda bensì il suicidio e, se si vuole, il diritto a togliersi la vita - che non è mai stato e non è un reato - ma aveva nella presenza al suo fianco del radicale Marco Cappato una vicinanza e pure un’operatività nella misura con la quale tale aiuto ha configurato, secondo la nostra legislazione sul fine vita, un reato: “Chiunque determina altri al suicidio ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione”.

Cappato si era autodenunciato per questo aiuto per la dolce morte del povero Dj Fabo, quest’ultimo in disperate condizioni da tempo, ridotto alla cecità e all’immobilità totale. Un reato compiuto peraltro coram populo e coram lege e non poco grave, punito con la galera dai cinque ai dodici anni. L’autodenuncia ha dunque prodotto una inchiesta nella Procura milanese condotta da due sostituti procuratori, due donne, e che si è conclusa con l’archiviazione di Cappato perché nel caso Antoniani e secondo l’interpretazione (per ora) dei Pm ha prevalso sui dettami tout court della legge “il principio della dignità umana che impone l’attribuzione ad Antoniani e a tutti gli individui che si trovano nelle medesime condizioni di un vero e proprio diritto al suicidio”. Tale e quale. La dignità umana che supera il diritto alla vita come bene giuridico tutelato cosicché, sempre per la sentenza di questi giorni, “la condotta di aiuto al suicidio diventa penalmente irrilevante”.

Giusto, diciamo noi, ma senza interferire con chiunque la pensi diversamente perché la morte è comunque un oggetto, una cosa, una “chose” da maneggiare con cura e, nel nostro piccolo, da tenere alla larga il più possibile. Ma il caso Antoniani-Cappato e la sua soluzione giuridica - attendiamo i livelli superiori, come si dice - ci racconta anche un’altra storia che riguarda l’auspicio dei Pm che “il legislatore si faccia carico in prima persona del problema”, cioè approvi una nuova legge sul fine vita o biotestamento, guardando con particolare attenzione al pensiero giuridico anglosassone con la sua “common law”, che ci appare ben più umana e al tempo stesso funzionale della nostrana “civil law”. È una speranza, con il massimo rispetto verso quanti, e sono tanti, la pensano diversamente.

A proposito, avete forse visto qualche trasmissione o talk-show - e sono tanti, troppi, insopportabilmente e unidirezionalmente vocianti, a cominciare da chi li conduce - dedicato a questa vicenda? Non pare. Eppure ce ne sarebbe da dire e da contraddire in incontri e scontri in televisione, civilmente, umanamente e rispettosamente, ma sempre nella dialettica degli opposti. Una speranza vana.

Aggiornato il 12 maggio 2017 alle ore 15:29