Bruno Tinti è un magistrato (in pensione, però “semel abbas semper abbas”) per niente indulgente con i criminali di ogni risma. E neppure con certa giustizia lassista. Senza essere un giustizialista, egli è giustamente duro con chi infrange la legge penale. Dunque, se ha scritto che “il problema non è la criminalità, ma la giustizia”, dobbiamo credergli, perché non può essere considerato un garantista peloso.

In un articolo comparso su “Il Fatto Quotidiano” del 3 aprile scorso, Tinti ha evidenziato che le statistiche ufficiali mostrano un’Italia diversa da quella che certa stampa e certa tivù tenderebbero a dipingere. Per esempio, nel 2015 gli omicidi (479) sono stati i meno numerosi dall’Unità d’Italia, nientemeno! Nella graduatoria degli ammazzamenti il Paese è ben piazzato tra i buoni. Tuttavia, afferma Tinti, “è comunque vero che il numero di omicidi (ma anche di furti, rapine, truffe, insomma la criminalità comune) potrebbe calare anche della metà; sarebbe anche facile: basterebbe che magistrati e politici facessero seriamente il loro dovere”.

 

Lasciamo stare qui, una volta tanto, i politici, animali per natura erranti, sia nel senso che sbagliano, sia nel senso che vanno appresso agli umori dei loro specifici elettori. Concentriamoci sui magistrati, che Tinti investe con una critica così devastante che, se non fosse uno di loro, potrebbe dare l’impressione di volerli diffamare. E infatti egli scrive: “Un ex collega magistrato ha raccontato una situazione tipica (e dunque ricorrente): processo a carico di una persona il cui certificato penale riporta, negli ultimi 15 anni, sentenze definitive (corsivo mio, n.d.r.) per estorsione (2 anni), furto (3 anni), rapina (2 anni), spaccio (3 anni), porto illegale di armi (3 anni), maltrattamenti (1 anno), resistenza a pubblico ufficiale (2 anni), guida in stato di ebbrezza (2 anni), ricettazione (2 anni), omicidio colposo (1 anno), lesioni personali aggravate (2 anni), violazioni in materia di rifiuti (1 anno). Totale 24 anni. Ma lui è lì a farsi il suo ennesimo processo (corsivo mio, n.d.r.)”.

 

Questo caso, che un magistrato denuncia e un altro magistrato ricorda, costituisce a loro dire “una situazione tipica e dunque ricorrente”, cioè, se le parole hanno un senso, il pressoché normale andamento della giurisdizione penale, che così non ha niente a che vedere con quella che dovrebbe esserne la vera normalità. In verità, un deprimente e preoccupante andazzo. Se si aggiunge, come sottolinea Tinti, che i giudici irrogano “generalmente” il minimo della pena e concedono quasi sempre le attenuanti generiche (un terzo di pena in meno), la conclusione inoppugnabile è questa: “Insomma, il processo penale da anni altro non è che una farsa”.

 

Una tragica farsa, mi sento di aggiungere con un ossimoro quanto mai azzeccato, perché, pur quando le pene siano appropriate nella sentenza, diventano comunque inappropriate nella realtà, perché le leggi sull’esecuzione della sentenza e sull’espiazione della pena stravolgono il dramma del verdetto trasformandolo in burla. Per l’ordinamento penitenziario il sangue delle vittime si asciuga presto, in senso metaforico e in senso reale. I politici, in questa trasformazione, sono gli attori comici, le spalle degli elettori, i servitori di due padroni egualmente ipocriti: il garantismo e il giustizialismo.

 

Aggiornato il 02 maggio 2017 alle ore 22:12