Non ci fosse stato l’arresto di Raffaele Marra, ieri, i giornalisti avrebbero passato la loro giornata a interrogare esperti di diritto sull’istituto dell’auto-sospensione. Soltanto (per ora) sfiorato da un’inchiesta che riguarda l’Esposizione Universale, infatti, Giuseppe Sala ha scelto questa strana “terza via” tra la “resistenza” e le “dimissioni” per rispondere politicamente alla notizia di essere stato iscritto nel registro degli indagati.
Il fatto oggetto dell’indagine è grave, ci mancherebbe. Ma la reazione di Sala, se possibile, è ancora più allarmante. Dice di autosospendersi dalla carica di sindaco della capitale economica del nostro Paese per aver appreso “da fonti giornalistiche” di un procedimento che lo coinvolge. E di compiere questo gesto “pur non avendo la benché minima idea delle ipotesi investigative”. Una fretta che non può passare inosservata e non può non avere conseguenze politiche.
Le indiscrezioni raccontano di un sindaco determinato ad evitare che si possa scherzare sulla sua onestà. Ha ragione: è un principio che vale per tutti. Ma non si può nemmeno scherzare sulle istituzioni che si è chiamati a rappresentare e non è accettabile l’idea di una carica così importante che si autosospende con questa leggerezza.
Governare Milano non è come fare il parlamentare e partecipare ai lavori di un’assemblea. È invece scegliere, prendere decisioni, guidare una città complessa e dinamica. Non ci si può assentare per sei mesi. Perché le funzioni per cui Sala è stato eletto e legittimato ad operare non possono essere cedute ad altri con questa facilità e perché i milanesi (e gli italiani) hanno il diritto di avere un sindaco con pieni poteri al governo di uno degli snodi finanziari più importanti in Europa. C’è poi un altro aspetto. Se Sala è convinto di avere la coscienza a posto, di potersi difendere presto – anzi, immediatamente – dai dubbi che la Procura ha sollevato o solleverà, allora doveva restare in carica e continuare a fare il suo lavoro in assoluta tranquillità. Se invece vive questa indagine come una sorta di rottura di un patto non scritto per cui sulla vicenda di Expo, per ragioni di Stato, non si dovrebbe e non si sarebbe dovuto indagare, allora farebbe bene a dimettersi e ad ammettere che candidarsi a sindaco in quelle condizioni è stato un errore molto grave.
Il 12 giugno, a sette giorni esatti dal ballottaggio, Beppe Sala lanciò una campagna social sul tema della legalità. Annunciò di aver firmato un codice etico e di voler nominare Gherardo Colombo alla guida del Comitato per la trasparenza e la legalità. Nello stesso manifesto attaccò Stefano Parisi utilizzando una foto di Mariastella Gelmini e strumentalizzando alcune dichiarazioni del suo avversario. Già al tempo, evidentemente, sul tema aveva le idee piuttosto confuse.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:59