Tv & politica, oltre il giardino grillino

Fra un tirare a campare (governativo) e uno squillo di tromba contro la tragedia dei vitalizi maturanti in settembre, procede l’incedere della politica che, soprattutto, si spalma sulle tivù. A parte il curioso fatto che quelli che alzano i lai più alti contro la tivù che li dimentica sono proprio i più assidui sul teleschermo, resta finalmente da decifrare - ovviamente divertendoci un po’ - la proposta finale dei pentastellati, al di là del no a tutto e tutti, da Sergio Mattarella in giù.

Oddio, decifrare è un termine troppo impegnativo tanto più che un formidabile Guzzanti (Paolo) ha, l’altro giorno, fulminato la singolare attitudine grillina a rispondere ai giornalisti parlando d’altro definendola come lo stile inarrivabile di quel grandioso Peter Sellers nel “Giardiniere, l’autentico e più veritiero capofila degli usi ascoltar parlando e parlando d’altro rispondere”. Una specialità riservata appunto a parlatori più importanti del Movimento 5 Stelle. Nel film “Il giardiniere” (titolo originale “Oltre il giardino”), Chance, che si occupa appunto di fiori e piante, è un ignorante e analfabeta a tutto tondo, ancorché imbottito da anni di tivù, che viene scambiato da certi della “upper class” statunitense per un famoso e saggio filosofo. Come mai? Per le sue risposte, ovviamente luoghi comuni banali data l’ignoranza di Chance, tipo “l’inverno viene sempre dopo la primavera” assunte a massime filosofiche e politiche cosicché di equivoco in equivoco questa bizzarra specie di cretino intelligente diventa una celebrità nazionale fino ad essere accolto alla Casa Bianca come consigliere.

Il genio creativo di Sellers offre la parabola, se non la metafora, del degrado della politica piegata dalla televisione alla più bieca stupidità, conservando un’attualità (il film è del 1979) più viva che mai. Con questo non si vuol dare del “giardiniere” ai molti, come Beppe Grillo e soci, per carità; ma ascoltarli sullo schermo spiega il senso metaforico del film e, per converso, la frequente abitudine giornalistica di non rilevarne l’insussistenza oltre che la non tanto sottile voluttà di prendere per i fondelli gli ascoltatori. Con le dovute eccezioni, per fortuna, che ci confortano pur sapendo che la riduzione della politica odierna ad uno stato che più basso non si può, non ci fa sperare bene sul futuro. Intanto però, lo stesso Luigi Di Maio, che dovrebbe essere l’“homo novus” più indicato da Grillo ad accedere a Palazzo Chigi, ha spiattellato ad una sempre più scocciata Lucia Annunziata (domenica, su Rai 3) la solita tiritera del “noi siamo diversi perché uno vale uno”, “noi non partecipiamo al banchetto della partitocrazia”, “noi vogliamo il governo del popolo”, ecc.; finché la paziente conduttrice s’è lasciata andare ad un “io mezz’ora di frasi fatte proprio non la sopporto”.

Intendiamoci, il nostro Di Maio-Sellers non è mica un incolto e neppure un disadattato della politica, anzi. Ma che sia stato beccato proprio per le sue parafrasi di quel leggendario Chance secondo cui “la pianta è morta ma le radici sono sane”, ci consola, ché, ogni tanto, il disvelamento del trucco, soprattutto in televisione, non fa male alla nostra salute. Tanto più che, sempre in tivù, questa volta su “La7”, Alessandro Di Battista, il competitor di Di Maio (come si dice in giro seppur con iterate smentite di entrambi), ha riofferto al “Faccia a faccia” di Giovanni Minoli una quasi identica parabola alla Peter Sellers, non avendone comunque l’intrinseca comicità, ma siamo lì. Sì, perché Minoli, che resta non solo l’inventore ma il bravissimo conduttore di questi scontri a due, ha anche lui invertito la rotta consueta dello storytelling che va per la maggiore in tv, e non solo. Ha cioè messo come paletto l’obbligo del mitico “Dibba” a rispondere alle domande, a non divagare come Chance. Paletto opportuno, si capisce, ma molto spesso aggirato proprio con la tecnica di parlare d’altro, di ripetere i soliti slogan, di divagare, di ripetere l’intercalare ma anche: “Governo pussa via, noi siamo diversi”, “l’Europa va bene ma anche male”, “l’Euro anche, ci vuole un referendum”, “solo governi eletti possono fare le riforme anche se bisogna votare subito dopo la Consulta”. Ma guai a dire che legge si preferisce, figuriamoci. Pensate un po’: fino alla settimana scorsa l’Italicum era una legge fascista per Grillo, adesso si potrebbe votare anche con questo sistema ma forse, magari, chissà, anche con un Italicum trasformato in “Legalicum”. Avete capito bene quel che ci aspetta, oltre il giardino?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:02