
C’è referendum e referendum, si capisce. Ma questo, e i prossimi venturi - se ci saranno - non potranno non fare i conti, oltre al contesto storico-politico globalizzato, con la mutazione della tivù mondiale. Ovverosia con l’influenza prima, l’interferenza poi e la mescolanza, infine, dei due linguaggi. C’è però un salto all’indietro da compiere, con qualche analogia col presente e riguarda il referendum “craxiano” sulla scala mobile. Come capita ad una certa età, non si hanno più idee ma memoria. Sono stato testimone diretto della giornata clou contraddistinta dall’imponente manifestazione del Partito comunista italiano col suo: “Eccoci! Siamo tre milioni!”.
Quando alla sera, nella Roma ancora assordata dalla folla “rossa” di Piazza San Giovanni - la piazza dei lavoratori per eccellenza - mi recai a Palazzo Chigi per incontrare Bettino Craxi, notai che c’era una sola finestra accesa e quando salii incontrai soltanto tre dei suoi collaboratori, fra cui l’indimenticabile Antonio Ghirelli, e il Presidente stava su una poltroncina a leggere “L’Avanti!” siccome c’era stata l’impressionante prova di forza del Pci e, contestualmente, la grande indecisione dei sondaggi, più contro che a favore, più per il “No” che per il “Sì”; ne parlai preoccupato con Ghirelli prima che con Bettino. Ghirelli mi disse che di noi presenti solo lui era assolutamente convinto di vincere. La mia perplessità fu infine travolta dal Presidente del Consiglio che si alzò di scatto, mi prese sottobraccio e disse: “Ho fame, andiamo a ‘La Maiella’”, un ristorante vicino all’hotel Raphael ed a Piazza Navona. E davanti al “Raphael” lasciammo l’auto.
Un salto in avanti nel tempo, sempre davanti al Raphael, dove anche questa volta c’ero, ed era il culmine di “Mani Pulite”, una decina di anni dopo la vittoria del “Sì” a quel referendum. Assistetti al lancio delle monetine, al famoso/famigerato gesto successivo ad un comizio comunista in Piazza Navona. Molte volte ho riflettuto su quell’evento, per molti di noi infame, una vergogna, dicevamo sdegnati. Pur non nascondendoci la potenza in sé del gesto di ripulsa della sua - sia metaforica che fisica - segnalazione di un odio, di un rancore, di una vendetta. Siccome la tivù l’ha ridato centinaia di volte, la riflessione di chi come me si è spesso occupato di storia e di linguaggio delle immagini (cinema e televisione) si è sempre più soffermato sull’emblematicità di quel tristissimo (per molti di noi) accadimento, tramutatosi con gli anni, vent’anni dopo, in una sorta di inizio, di indizio se non di una prova generale. Di qualcosa che aveva bensì a che fare con la protesta popolare ma che, da allora ad oggi, si è per così dire televisivamente globalizzato e incarnato, influendo e comunque spiegando il senso e la portata di quella che oggi definiamo populismo, rivolta contro l’establishment, no alla casta, ecc..
Del resto, la vittoria di Donald Trump si iscrive in questo contesto. In altri termini - come ha narrato superbamente Andrea Minuz su “Il Foglio” - si sono imposti nuovi format della politica corrispettivi ai format tv, per cui la stessa storia, vicenda, narrazione del berlusconismo non può prescindere dal “karaoke” del quale Eugenio Scalfari e “l’Unità” intuirono subito lo scandalo e, al tempo stesso, l’immensa potenzialità assistendo alla folla romana, dopo il comizio di Silvio Berlusconi, cantante l’inno di Forza Italia seguendo le parole sullo schermo. Come nel karaoke, appunto, e così titolò “l’Unità”: “Ecco Forza Italia, la politica karaoke”. Polemiche a non finire culminate nel mitico superkaraoke con Rosanna Lambertucci, Christian De Sica e Claudio Lippi con una parata di superstar in una Piazza San Giovanni stracolma. Lo scandalo imperdonabile era la profanazione di quella Piazza San Giovanni, luogo sacro ai grandi raduni (Eccoci!) del popolo di sinistra, sconsacrata e consegnata al simbolo karaokesco, quel Cavaliere che aveva per di più sdoganato i post-fascisti di Gianfranco Fini.
Vent’anni dopo, Matteo Renzi - colui che il Cavaliere vorrebbe assumere a Mediaset come presentatore in caso di sconfitta del “Sì” - ha imparato, eccome, la lezione del karaoke e con la sua “Leopolda” ha trasferito in un format la festa per antonomasia del Partito. Uno scandalo per i vecchi della ditta. Da vendicare con un chiaro “No”, anche dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia. Siccome la tivù produce, rinnova, influenza e interagisce, il progredire dei reality, anche sull’onda del classico “The Truman Show”, ha scandito questo ventennio segnandone in profondità la stessa Polis giacché, tanto per esemplificare, un format come “Il Grande Fratello” non può non aver posto le basi al disegno di Beppe Grillo e di Gianroberto Casaleggio perché la filosofia del “Gf”, in ultima istanza, attribuiva allo spettatore la suprema e tanto sospirata facoltà di decidere il destino dei concorrenti spiati 24 ore su 24, di modificare in corsa la scrittura dello show, integrando tivù e Rete. Scalfari scrisse che col “Big Brother” avremmo assistito al crollo della civiltà occidentale, oltre che alla fine del giornalismo, della poesia e della cultura. Sbagliava. Stava avanzando un’autentica rivoluzione sconosciuta, quella dei reality, fra cui l’esemplare “La Talpa”, che spiega a fondo il Movimento 5 Stelle sopravveniente: l’idea di “democrazia diretta” controllata dal basso, l’ossessione per la trasparenza, la dittatura dell’onestà, il supercontrollo maoista alla Casaleggio. C’è un letterale ribaltamento degli show che passano dalle prove di intelligenza e di competenza dello spettatore, del cittadino, alla sua semplice, facile, scivolosamente intrattenibile adesione alla struttura stessa dei format.
Dalla competenza si passa al rifiuto delle codificazioni intellettuali imposte dall’alto, cioè dall’establishment, all’indignazione, dall’uno vale uno all’uno vale l’altro in una parallela crescita del disprezzo per le caste, i poteri forti, le banche, l’Europa, i complotti sempre in agguato: l’antipolitica. Come rigetto ma anche come esplosione di un rancore antico, di un non più represso gesto di vendetta e di punizione. Le archetipali monetine al “Raphael”? In un certo senso sì. Ecco, comunque vada questo referendum, sommessamente suggeriamo a Matteo di stare lontano da Piazza Navona. Non si sa mai.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:03