A proposito d’inchieste e di diversità

Non è stata una gran trovata quella di Matteo Renzi, di invitare, in apparenza genericamente, a non usare le inchieste come guida, come head line della campagna referendaria. Semmai poteva dirla prima, non essendogli mancata l’occasione nell’autentica orgia interventista di cui ha dato mostra, ottenendo dal Cavaliere il complimento di “gran lavoratore”, anche se con l’aggiunta correttiva di non essere tagliato per Palazzo Chigi, meglio, molto meglio, come presentatore televisivo (“Lo assumerei seduta stante!”). Sono gli stop and go, i “no” ed i “ni” conditi da ampi sorrisi, di un leader di Forza Italia che sembra essere tornato ai suoi fasti interventisti di cui è stato maestro, non infrequenti peraltro, con cui dare fiato alle trombe ad un partito con qualche difficoltà (e molti voti in meno di prima).

Ma tornando a Renzi e alla sua denuncia dello sbaglio di chi fa referendum sventolando ipotesi di reato, avvisi di garanzia, inchieste varie, e fermo restando che il più indicato target era ed è (e sarà) il Movimento 5 Stelle, il sospetto che richiamasse in un certo qual modo la vicenda De Luca-Bindi sembra fondato, anche alla luce del fascicolo (inchiesta?) aperto in quel di Napoli proprio sull’incontro fra sindaci e amministratori campani durante il quale il presidente Vincenzo De Luca accennò a “fiumi di denaro” in arrivo in caso di vittoria del “Sì”.

Ora, non entrando nel merito della questione specifica, il ricordo non può non andare sia alle cosiddette minacce di “uccisione” di Rosy Bindi in un fuori onda dello stesso De Luca, poi pentitosi (ma il consiglio a mordersi la lingua prima di esternare non ci pare così vano), sia, soprattutto, alla mossa della presidente dell’antimafia che, appunto, ha sollecitato la magistratura a guardare dentro a quella riunione con il finale di quella frase invero infelice. Che sbaglio! Una mossa che sa di vendetta, che ha l’agro sapore di una risposta da rancore non trattenuto e comunque eccessiva, data anche l’autorevolezza di quella commissione. È dunque assai probabile che il richiamo del Premier sia rivolto alla presidente della suddetta commissione che, probabilmente, ha ben altri e ben più gravi problemi da gestire. E passiamo a Beppe Grillo che, senza dubbio alcuno, ha svolto fino ad ora le sue campagne elettorali sfruttando ciò che lo scomparso Gianroberto Casaleggio considerava alla stregua di un“gargarismo”, vale a dire il garantismo, sulla base non soltanto di un imminente complotto alle porte, ma soprattutto del teorema che tutti siamo colpevoli, fino a prova contraria. Un capolavoro di ribaltamento ad usum delphini, a proprio uso e consumo. Rivolto poi alla classe politica, tutta, cioè tutti gli altri, questo teorema ha fatto breccia e ha raccolto una messe di consensi facendo aggio sulle (invero pochine) qualità delle critiche pentastellate. Fatto sta che populismo e giustizialismo si sono accavallati in una rincorsa alla denuncia dei sospetti colpevoli facendo dell’avviso di garanzia ad un politico una sorta di condanna preventiva con l’obbligo di fare illico et immediate un passo indietro, se non a dare le dimissioni. Chi nei pentastellati si è rifiutato di rinculare, è stato cacciato fuori. Esempio preclaro il sindaco Federico Pizzarotti, poi - se ben ricordiamo - assolto, ma non più riammesso nella squadra. Meglio così, avrà pensato il primo cittadino parmense.

L’andazzo grillino della condanna preventiva - con relativo obbligo all’arretramento - allo scoccare di una sia pur lieve campanella di un avviso di garanzia (di garanzia, avete capito bene!) continua e continuerà, anche e soprattutto alla luce del dilagare dell’inchiesta di Palermo sulle firme false, risalita ora fino a Bologna. Grillo ha tuonato dal suo blog e in varie altre sedi comunicative giacché su questo piano è un attore imbattibile, ribadendo con la consueta virulenza che nel suo movimento chi sbaglia deve pagare, punto e basta. Basta? No, solo punto, anzi due punti, che mettiamo noi; perché la storia va avanti e le cose non stanno proprio così nel movimento autoproclamatosi dell’onestà e della trasparenza, e sempre ritto in piedi dalla cattedra di moralità a dare lezioni agli altri, condite di insulti e volgarità. Diversità e moralità, complottismo e giustizialismo come benzina in un motore che, tuttavia, sembra battere un po’ in testa, non soltanto perché i pentastellati non sembrano così diversi da tutti gli altri “politicanti”, a cominciare dalla pesante inchiesta di Palermo, ma per i due pesi e due misure con cui lo stesso Grillo sta applicando il leggendario chi sbaglia paga, dimissioni subito. Leggendario nel senso di leggenda, a quanto pare e a quanto ne ha scritto con la riconosciuta lucidità e acutezza Filippo Facci su “Libero” dell’altro giorno, laddove ha elencato con nomi e cognomi i non pochi amministratori vari, anche consiglieri regionali, costretti a dimettersi ma poi assolti e non più riammessi, magari con qualche scusa (figuriamoci!), e i non meno pochi, fra cui il sindaco di Livorno, pluriavvisato, ma rimasto al suo posto. Una lettura istruttiva che serve a dare un senso più pieno alla diversità. Quella all’interno dei grillini, in primis, ma anche, ad essere cattivi come loro, quella dei diversi sì, ma in peggio.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:02