Non nasce e non vince per caso Donald Trump

Ci sono già stati esempi alla Donald Trump nella vicenda americana? E ci sono stati, se vogliamo allargarci, nella vicenda storica mondiale e pure italiana? Risposte complesse, ovviamente, ma riflessioni necessarie, pure. Perché nascita e successo di Donald Trump rievocano analogie americane, come quella di un Ronald Reagan dipinto come attore western di serie b, e attore da quattro soldi frutto del sistema semplificatorio immaginifico americano e, da noi, il caso Berlusconi - invero clamoroso in Europa - di cui s’è detto e scritto ampiamente.

Sicché, la vittoria di Donald Trump, peraltro ampia e trionfale - perché si “cucca” Camera, Senato, ecc. - non è una novità, tanto più che non lo era nemmeno quella di Barack Obama, sul versante opposto della sinistra, se così vogliamo chiamarla in quegli Usa, pronti a tutto, come si dice, anche a votare otto anni prima un “colored” e otto anni dopo un “super white”, costruttore miliardario, donnaiolo impenitente, demagogo e felice di contraddirsi, ma soprattutto di contraddire, risultati alla mano, i soliti gauchisti con la puzza sotto il naso dimostratisi ben più lontani dalla realtà della vita quotidiana Usa (ma anche in Europa e per certi versi in Italia) perché questo è un punto essenziale nella valutazione della vittoria trumpiana. E la si dovrà guardare con sempre maggiore attenzione politica, sociale e sociologica, lasciando un po’ perdere le a volte svianti tecniche comunicative che sono bensì importanti ma sempre sottostanti all’espressione della volontà politica, non soltanto mediatica, del personaggio.

Trump viene dopo, non prima, i risultati invero preoccupanti se non disastrosi della cosiddetta, seppure leggendaria, new economy. Questa ha accentuato le differenze sociali perché, accentuandosi il dispotismo della finanza assai poco controllabile dalla politica, ha prodotto l’avvento di una più potente, se non onnipotente, tecnologia strettamente intrecciata con la sharing economy. Risultato? Non sembrerebbe così positivo, anzi. Il ceto medio si è impoverito, la classe operaia è stata marginalizzata anche con la delocalizzazione delle imprese. Così, e forse soprattutto, negli Stati Uniti, come stiamo dicendo. Ma anche qui in Europa, l’Europa identificabile esemplarmente e sommariamente, ma non erroneamente, nella figura dominante dell’Angela Merkel made in Germany, dove è stata imposta un’austerity fatta passare non soltanto come indispensabile toccasana per i popoli in difficoltà. Il vero populismo nasce da tutte queste “vicende” che sommariamente stiamo toccando, anche se il trionfo di “The Donald” riguarda più direttamente un oltreoceano dal quale, comunque, sono venute “novità” storiche e politiche destinate a riguardarci.

Il populismo di Trump va osservato da una visuale per dir così storica, inquadrandolo in una dimensione spazio-tempo come la nostra, così ricca di contraddizioni ma anche e soprattutto di disattenzioni, da parte sia della politica sia, va pur detto, degli stessi media i quali, per di più, hanno eseguito il loro compito di osservazione con spirito di conservazione “superiore”, piuttosto che abbassarsi nell’esercizio, certamente più faticoso, dell’osservazione degli inferiori, cioè dei comuni mortali. Il populismo trumpiano è dunque apparso molto più in sintonia col malessere diffuso nel ceto medio, anche per il mancato rispetto al più intimo dovere di molti mass media nel calarvisi dentro e spiegarne le radici e suggerirne eventuali soluzioni. Sbandierando entusiasticamente la ripresa vantata da Obama rispetto alle reali attese e non riuscendo a interpretare il lato oscuro della new economy, ecco che la rivolta del miliardario Trump col suo populismo fin da subito denigrato ma non capito, ha mandato a carte quarantotto un clintonismo al femminile fin troppo sicuro di stravincere in nome e per conto di quel politically correct cui era sfuggito nientepopodimenoché il dilagante disagio sociale. Questo è stato l’errore fatale, di fondo, della sopravvalutata Hillary Clinton. Cosicché di questo disagio sociale il più vero interprete è stato proprio un miliardario sia pure col parrucchino ma con un grande fiuto della realtà del suo Paese.

Non si mancherà di seguirne le evoluzioni, le scelte e soprattutto gli influssi sulla politica di casa nostra. Ma in questo momento vale la pena riflettere sul “populismo” che è l’opposto di “liberalismo”, ma che resta sempre il primo sintomo del malessere, e come fa osservare un lucido Gigi Da Rold su “Il Sussidiario”, un più o meno vicino annuncio della rivolta, che, tanto per intenderci, non è quella dell’altra sera recante i cartelli “Trump non è il nostro Presidente”. Trattasi, al contrario, di una rivolta più ampia e più pericolosa anche e soprattutto perché la storia del Novecento sta lì ad indicarcene gli effetti. A meno che... A meno che non la si governi, questa rivolta è destinata, in genere, a passare a fasi successive, sempre più antipolitiche, assai spesso regressive, quasi sempre nazionaliste, sfociando in una destra radicale che non oseremmo chiamare “fascista” perché il termine ci impone cupe riflessioni. Riflessioni, comunque. Per ora.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:59