
A che punto siamo? Che ora è? Nel Partito Democratico e dintorni, vogliamo dire. Perché Matteo Renzi sarà arrogante e pure cattivo - confessandosi ma non pentendosi da un ottimo Giovanni Minoli - ma il punto non è questo o soltanto questo. Il punto è se Renzi è davvero quel leader che s’era annunciato dalle prime Leopolde e poi al Nazareno e persino con quel cinico “stai sereno” rivolto a Enrico Letta, ormai con la valigia in mano. Il resto è sotto i nostri occhi, dal Governo al referendum, e dopo. Dunque, che succede nel Pd? Qui Renzi, diciamocelo inter nos, ha ingaggiato qualcosa di più e di diverso dal tradizionale braccio di ferro fra maggioranza ed opposizione. Di diverso anche, direi soprattutto e più significativamente, dal suo cavallo di battaglia della rottamazione. La sfida di Renzi sembra intrecciarsi con tattica e strategia sullo sfondo di un tentativo di cambiare in profondità il partito che certamente viene da lontano ma, altrettanto certamente, non è così cambiato o tale non appare, al di là, appunto, del cavallo di battaglia renziano.
L’impressione già dall’inizio era di un rinnovamento ab imis, di una cacciata in soffitta di simboli umani e politici attuando la rottamazione che non poteva non essere una sorta di esilio per la vecchia guardia, da Massimo D’Alema a Pier Luigi Bersani. In effetti Renzi voleva o vuole una sorta di epurazione che rivoluzioni il Pd, già Pds e Pci. Un obiettivo di non poco conto. Partendo, tra l’altro, da una posizione agevolata dalla doppia carica di Premier e segretario del partito, che è già in sé una rottura formale col mito sinistrorso dell’incompatibilità. Diciamo formale perché la sostanza non riguarda l’incompatibilità che si tira o si rompe come un elastico a seconda delle convenienze, la sostanza attiene essenzialmente alla capacità, direi addirittura alla statura, di chi incarna la leadership. Questo è il vero punto dell’intera situazione, sia del Governo che, ovviamente, di un partito come il Pd, nel quale sembrano affacciarsi, come negli ultimi decenni, propositi di scissione, benché la loro eventuale attuazione abbia dagli esempi passati una non eccelsa risposta quantitativa, da Fausto Bertinotti a Nichi Vendola a Franco Turigliatto, ecc.. Siccome quell’autentico professionista come Minoli è riuscito in un “faccia a faccia” di pura politica a portare Renzi, comunque esperto in comunicazione da buon allievo di Silvio Berlusconi, ad alcune ammissioni-confessioni che stanno ancora facendo da headline nei commenti mediatici, tali commenti si sono lanciati persino in diatribe psicologiche se non psicoanalitiche a proposito della cattiveria, posto che l’arroganza è un derivato della prima. Contrapponendovi, ovviamente, la bontà. Ora, che un leader debba essere più cattivo che buono o viceversa, è un tema da dopocena lasciando il tempo che trova, anche e soprattutto perché bisogna sapere esattamente due cose: la prima se Renzi sia davvero un leader, la seconda se cattiveria o bontà siano categorie applicabili al mestiere più difficile del mondo, che si chiama politica.
Personalmente ritengo che nel contesto attuale, Renzi eserciti concretamente il ruolo di leader anche perché il panorama leaderistico italiano ne è assai povero. Silvio Berlusconi è stato ed è un leader, ma con potenzialità assai diverse da prima, con problemi di salute che gli impongono prudenza e con un partito in oggettive difficoltà, avendo - tra l’altro - subito due o tre scissioni che hanno spianato la strada governativa renziana verso l’area di centro. Area che, a mio parere, attraversa la stessa crisi dei repubblicani Usa, dei conservatori di David Cameron, di Nicolas Sarkozy e direi della stessa Angela Merkel. Il problema del centrodestra era stato equilibrato dal Cavaliere insieme a Umberto Bossi. Oggi ha a che fare con Matteo Salvini e Giorgia Meloni, un po’ come Sarkozy ha il fiato sul collo della Marine Le Pen e Cameron ha perso clamorosamente con la Brexit.
Ma se il centrodestra è in crisi anche d’identità, con tentativi di superamento e compattamento con il “No” al referendum, cioè a Renzi, ne deriva un’agevolazione automatica per il Premier al quale piace il rischio di una personalizzazione, prima voluta e ora allontanata in ritardo, ma la sensazione che questo rischio non sia del tutto calcolato è la prima se non la più importante critica al suo essere o voler essere leader. Che significa non soltanto governare bene il proprio Paese senza troppe promesse da mercante ma, nel suo caso, di tenersi le spalle coperte da un partito abbastanza compatto, unito o almeno amico, sol che si pensi alla portata politica di un referendum che, in caso di vittoria del “No”, avrà come primo (e ultimo) effetto di mandare a casa Matteo Renzi. Il suo errore di fondo, in quest’occasione, è la derivazione della cattiveria, quell’arroganza che ha spesso e volentieri provocato lacerazioni interne, prese di posizione personalistiche drastiche, minacce di scissione. Sullo sfondo la minaccia di una crescita ulteriore di Beppe Grillo. Un leader non può permettersi questi lussi nel momento in cui ha bisogno del consenso del popolo italiano. A cominciare dal suo, di popolo.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:03