
Lo diciamo sul serio. E non avrà da adontarsene il nostro direttore se entriamo - un po’ per scherzo, un po’ per non morire - a gamba tesa in un campo, e che campo, dove lui e Carlo Freccero, due fra i veri maestri dei mass media e comunque due intellettuali di gran valore, hanno la voce, ma solo quella, per critiche e proposte. Voce, ma non potere, ché lo slogan della faciloneria dei filoni politici odierni (con adulante coro mediatico), ha dapprima imposto il “fuori i partiti dalla Rai!” e poi ha ridotto il ruolo del Consiglio di amministrazione più a osservare che a decidere, infine ha nominato chi voleva il Premier, o chi per lui, cominciando dall’alto, anzi Dall’Orto, con la sicumera e la baldanza di chi annuncia: adesso vi facciamo vedere come si guida una Rai finalmente depurata dalla peste partitica. È un po’ lo schema della (quasi) Terza Repubblica modello Matteo Renzi, sulla cui bandiera spicca(va) lo stesso slogan rottamatore, con la parola Italia al posto di Rai. Risultati? Vediamo un po’.
La Rai, ed è l’onorevole Michele Anzaldi, renziano doc della Commissione parlamentare di vigilanza, a dirlo, è in crisi non soltanto perché il potentissimo direttore generale Antonio Campo Dall’Orto non funziona, ma soprattutto perché a non funzionare è proprio questa Rai dopo la cura del pesticida antipartiti. Bisogna ritornare, come si dice, all’antico. Roba da non credere. L’ha detto all’ottimo Salvatore Merlo su “Il Foglio” di ieri. Non entriamo nel merito della specificità personalizzata delle accuse di Anzaldi, compresa la sua richiesta di mettere al posto del direttore generale un commissario su cui, almeno a voce, dovrà dire autorevolmente la sua il Cda.
Un fatto è certo, anzi due. Il primo è che una sia pur rapida visione d’insieme della Rai tv di oggi, pur non mostrando macerie, offre tuttavia un panorama per così dire depresso, ed è persino ovvio che una grande responsabilità pesi sulle spalle del direttore generale, non fosse altro per i poteri di cui dispone. Immani, innanzitutto perché la gestione della Rai senza i partiti è pura fiction - ma di serie B o C - sia per l’irrealtà di una simile sloganistica da quattro soldi ma da tanti posti per sé, sia per la storia stessa della più grande azienda italiana produttrice di immagini e di informazioni. E questa storia ha una narrazione completamente diversa, se non opposta al motto di cui sopra. L’esempio, e questo è il secondo fatto, ce lo offre uno come Giovanni Minoli, di allora e di adesso. Adesso che a “Radio 24” ha annunciato il ritorno del “suo” Mixer, sia pure radiofonico, con Mario Sechi e Pietrangelo Buttafuoco, eccellente informatore il primo e formidabile intellettuale-scrittore il secondo. Ma perché funziona ancora Mixer? Perché funzionava allora, eccome, se è vero come è vero che negli approfondimenti della stessa azienda, come l’ottima Rai Storia, le interviste di Minoli fanno testo - letteralmente - proprio per il taglio, il tono, lo spirito, il senso della storia, appunto, che il conduttore ci metteva dentro.
E adesso? Beh, lasciamo perdere, benché l’onorevole Anzaldi abbia, tra le altre cose, lamentato la cancellazione del “Ballarò” di Massimo Giannini. Peccato che non si sia ricordato dell’altra, affatto inspiegata e inspiegabile cancellazione, quella di Nicola Porro che, per sua e nostra fortuna ritornerà fra poco su Mediaset con Piero Chiambretti. Meno male, diciamo noi. Ma ne riparleremo anche sollecitati dalla considerazione di Merlo su una tivù, Rai compresa, “spettacolo di sbranamenti e di calci in bocca tra politici, quella specie di gioco di società inselvatichito che ha giustamente convinto gli italiani di essere migliori dei loro rappresentanti”. Tié.
E Cirino Pomicino? Forse che siamo all’eterno ritorno del sempre uguale? Ma no, anche se la proposta invero dirompente dei grillini sulla voglia di proporzionale (puro, mi raccomando!) indurrebbe a tale conclusione. Ma non è esattamente così, non è per questo, anche e soprattutto perché il proporzionale si fondava - e si fonda - sui partiti, che non ci sono più. Ma si fondava soprattutto sulla politica, sulla quale, et pour cause, si basano i ragionamenti di Pomicino, a cominciare da quelli sull’Europa o meglio la Ue, che abbiamo davanti. Parlare di abbandono di questa Unione come ne fanno i Salvini e compagnia di giro, benché sia, ovviamente, del tutto legittimo, non c’entra con la politica. E quando invece Pomicino - ma lo dice anche per gli “interna corporis” italici - incalza implacabilmente Matteo Renzi a proposito di un’agenda europea (che anche nella sua guida semestrale dei capi di Stato è stata utile quanto i pannicelli caldi, e dunque sia il Parlamento ad esprimere un governo europeo) in grado di invertire la rotta di una crisi dell’economia di cui la sua finanziarizzazione è uno dei capi d’imputazione più gravi insieme all’austerità anticrescita, e di una “invasione biblica”, peggiore delle sette piaghe d’Egitto, l’immigrazione, col suo retaggio di paure sullo sfondo del fondamentalismo e del terrorismo islamico. Il ritorno alla politica, questa sconosciuta.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:58