Le bugie sulla Brexit

In questi giorni è caccia grossa a quella maggioranza di inglesi che ha votato per l’uscita dall’Europa. Si è insinuato che il voto referendario abbia segnato una frattura generazionale tra i giovani maggioritariamente favorevoli a restare nella Ue e gli anziani tendenzialmente contrari. Una balla colossale, suffragata da improbabili analisi dei flussi elettorali proposti da quegli stessi istituti di sondaggi che avevano toppato tutte le previsioni sull’esito referendario. I fatti hanno ridimensionato il voto giovanile per il “sì” perché una larga parte di quel mondo ha disertato le urne. Eppure i mistificatori di professione hanno instillato il sospetto che i vecchi avrebbero negato il futuro ai loro figli in nome della nostalgia per un passato imperiale. Ma quanti britannici sono ancora in vita che ricordano, avendolo vissuto, l’Impero britannico? Siamo al London City Hall, non a Balaklava.

Altra bugia ancor più grossa. Un sito on-line inglese raccoglie le richieste per rifare il referendum sull’uscita dall’Ue. I nostri media hanno dato grande risalto all’iniziativa. Qualche programma televisivo “orientato” oltre la decenza ha mostrato il contatore delle sottoscrizioni in diretta. I telespettatori italiani potevano constatare in tempo reale la valanga di adesioni che andavano crescendo alla velocità della luce. Due milioni, quasi tre nel giro di poco più di un’ora. Una cosa da non credere. Infatti, non bisognava crederci perché, come si è scoperto, il meccanismo era truffaldino. Tutti nel mondo, oltre gli elettori britannici, si potevano registrare anche più volte e con nomi di fantasia.

Altro palloncino sgonfiato. Si è passati a mostrare in video facce affrante di studenti, ristoratori, pizzaioli e simil-manager italiani residenti a Londra. “Con la Gran Bretagna fuori dall’Europa che sarà di noi, del nostro futuro?”, la litania degli intervistati. Dai set televisivi un plotone di cialtroni della politica e del business a fare da controcanto, come un coro di prefiche in una tragedia greca. “La Gran Bretagna deve farsi carico degli italiani che lavorano lì”, questo il tenore del brusio di sottofondo. Domanda: perché ai nostri dovrebbero pensare gli inglesi? II nostro governo, no? Non dovrebbe essere il superman di Palazzo Chigi a preoccuparsi di rimportare in patria gli italiani emigrati all’estero assicurandogli un futuro lavorativo decente? Lo pretendiamo dagli altri invocando il medesimo “diritto” dei macrò. E poi, gli italiani seri a Londra possono stare tranquilli perché non corrono alcun pericolo. Un elemento valido nessun Paese al mondo, tranne la suicida Italia, se lo lascerebbe scappare per inseguire vacue questioni di principio.

Ultima idiozia che circola ad arte: il razzismo british. Posto che gli imbecilli prosperano a tutte le latitudini non si può dire che il voto abbia scatenato istinti xenofobi negli inglesi perché, molto più semplicemente, i sudditi di sua maestà già prima avevano le scatole piene di sopportare il degrado e la violenza connesse alla proliferazione incontrollata di una circolazione intracomunitaria non compatibile con l’ordinato svolgimento della vita civile inglese. Ubriaconi, sfaccendati, inaffidabili nel lavoro e violenti non potevano in alcun modo diventare la fisiologia del sistema: dovevano essere espunti in qualche maniera. L’occasione del referendum è stato il modo migliore per farlo. Niente razzismo, dunque, ma solo autodifesa di una società che si sente aggredita. La sola verità che emerge da questo gustoso quadretto è che ad aver paura non sono gli inglesi che se ne sono andati, ma sono gli altri che restano nella Ue e che abbaiano alla luna perché temono che gli caschi in testa.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 19:35