Armi improprie ed a doppio taglio

Anche un analista distratto si sarà accorto che da qualche giorno il leggendario slogan renziano sul referendum come ultima spiaggia, ovverosia un “après de moi le déluge!”, si è un po’ mitigato. Non più quella sorta di minaccia a referendum armato che ha fatto da motivo conduttore del Premier in una vicenda elettorale che non solo è ad una data lontanissima dal referendum, ma è completamente diversa. Che se ne sia accorto l’ultima settimana, grazie probabilmente al suggeritore Giorgio Napolitano, è forse, diciamo forse, il segnale di una qualche resipiscenza, di una pausa di riflessione vagamente autocritica a fronte dei dati non certo entusiasmanti del Partito Democratico al primo turno.

A pochi giorni dal ballottaggio, col suo giudizio radicale del “sì sì, no no” di evangelico marchio, il tema amministrativo, del sindaco che verrà, buttato fuori dalla finestra da Matteo Renzi, rientra di prepotenza dalla porta dei Comuni di Milano, Roma, Torino, ecc.. E la consapevolezza di un passo falso potrebbe intravedersi in questo cambio di passo, per cui - oggi - per Renzi si tratta della governabilità in senso lato e non più del suo Governo. Ma è forse un po’ tardi; giacché la torsione violenta di un’elezione amministrativa in un giudizio di Dio referendario ha messo in moto l’esatto contrario dei desideri del Premier, dando un’arma in più ai suoi avversari - fuori e dentro il Pd - che infatti, a cominciare da Matteo Salvini e da Renato Brunetta (benché ora più placato), inviterebbero a votare domenica prossima per il Movimento 5 Stelle, con lo scopo esplicito di mandare a casa Renzi. Ma le cose stanno davvero così?

A parte il fatto che il Premier ha già ribadito che non se ne andrà per nessun’altra ragione all’infuori della vittoria del “no” in autunno, resta intatta l’altra questione, quella vera, quella che cioè pone in termini invalicabili il ballottaggio imminente: quale sarà il sindaco/a migliore per Milano, Roma, Torino e le altre città. In questo caso la stessa arma dell’opposizione diventa impropria come l’altra, pericolosamente a doppio taglio, rischiando di consegnare non solo città come Roma e Torino (Napoli lo è già) a due “grilline”, due donne carine e bravine dalla faccia pulita come si dice, ma visibilmente non attrezzate a guidare queste due grandi città; ma, quel che è peggio, a consegnare a Beppe Grillo la chiave d’accesso, assolutamente immeritata e vedremo perché, allo scontro diretto fra lui e Renzi, qualunque sia il risultato di domenica e, dopo, del referendum stesso. Grillo, colui che insieme a Nigel Farage vuole l’uscita dall’Euro? Il leader del neo-forcaiolismo? Il padre-padrone di un partito del quale non sappiamo cosa pensi davvero dell’Alleanza Atlantica, dell’Europa, del Medio Oriente, dell’Isis, dell’immigrazione e di Israele salvo qualche lacerto di dichiarazioni “bonne a tout faire”, di qua e di là, di su e di giù, a favore e contro, come tira il vento del rancore e della frustrazione. E sempre col ditino puntato contro gli altri, tutti, sempre con la spocchia di chi parla dalla cattedra di un moralismo patibolare per i diversi da loro, tutti ladri, corrotti, mafiosi, criminali e indegni. Non male come programma.

Il punto è che siamo in una fase completamente diversa, non più bipolare ma tripolare. Se lo scontro fosse imminente, sarebbe dunque a due, a quei due. Diciamoci la verità: il centrodestra a trazione berlusconiana è indebolito da una stagione di scissioni, abbandoni e insuccessi. Ma l’ultimo, il più vistoso, è quello di Salvini che voleva imporsi come leader unico, quando invece, a cominciare da Milano, si è assistito ad un Silvio Berlusconi evergreen, benché provato proprio da quelle diatribe interne che l’hanno condotto all’ospedale San Raffaele, dove, ne siamo straconvinti, sarà rimesso a nuovo. Al contrario, rimettere in sesto un’alleanza, una federazione competitiva, sarà dura; e lunga.

Anche se a Milano cresce il consenso all’ottimo “federatore” Stefano Parisi. Qui, nella città governata per cinque anni da Giuliano Pisapia, lo scontro fra Parisi e Beppe Sala è una sorta di paradigma connesso all’uso dell’arma impropria di cui sopra. La misura ne è data dall’inaspettata dichiarazione di Dario Fo a favore di Parisi, la cui eventuale vittoria su Sala sarebbe un danno enorme per Renzi come vuole appunto il Premio Nobel, insieme a non pochi della gauche ambrosiana. Non a caso la parte più vicina a Sala, a cominciare dallo stesso, allontanano da sé le accuse di stretto patronage renziano e affermano che il loro candidato merita di vincere non perché è amico di Renzi ma per il suo alto profilo di manager e amministratore. E ringraziano l’endorsement dei radicali in suo favore, gli stessi che peraltro hanno fatto un esposto per l’incandidabilità di Sala, dando un segnale che, prima ancora che politico, è francamente contradditorio, vagamente surreale.

A Roma il discorso sembra più complesso, anche per l’ampiezza del distacco fra Virginia Raggi e Roberto Giachetti, di entità capovolta rispetto alla situazione torinese. Stando però alla classica “In mezz’ora” di Lucia Annunziata, le due aspiranti alla poltrona hanno bensì offerto volti nuovi e gradevoli, ma sui problemi veri, sulla concretezza delle soluzioni, sui programmi forti, sulle scelte a medio e lungo termine e sull’idea di città, ci sono apparse delle scolarette ammodo, anche ben preparate. Ma nella prova di poesia a memoria. La prosa è un’altra cosa.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:59