
La foto è, da sempre, un dolce inganno, una mitologia, un gioco di specchi. E gli specchi sono sempre quelli della Regina Cattiva: “Specchio specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?”. Con l’avvento del selfie le cose si sono un po’ complicate, ferma restando l’attrazione fatale dello specchio-fotografia in cui apparire, mostrarsi al fianco, concedersi ad una foto di gruppo, regalare e regalarsi una prova “testimoniale” di un incontro importante, di un’amicizia da raccontare al talk-show o anche al bar degli amici.
Cosicché, anche Matteo Salvini, che pure come scafato giornalista (per eccellenza radiofonico con la leggendariamente virulenta Radio Padania) dovrebbe conoscere i tanti limiti e i pochi pregi selfistici, sembra come partecipare alla maratona di chi arriva primo a farsi riprendere con i personaggi che contano, poi, magari, sfruttarne l’appeal, oltre che la conoscenza. In effetti il selfie è una sorta di dare avere, più che di scambio, una specie di fissazione dell’immagine a fianco pur di ratificarne non solo la conoscenza, ma la condivisione “ideale”, come dire, la partecipazione allo stesso mondo. Se non allo stesso partito.
In un pregevole ritratto del Salvini, questa fonte battesimale del selfie è stata lucidamente e ironicamente raccontata da Salvatore Merlo su “Il Foglio” ricordandoci, fra le righe, sia l’oggettiva perdita di voti della Lega salviniana sia, soprattutto, i limiti se non l’autentico rischio “politico” nell’apparire a fianco, che so, di una Marine Le Pen, di un Donald Trump, di un Vladimir Putin e, chi più ne ha più ne metta, dei leader cosiddetti “populisti”. Il rischio lo si è subito captato poche ore dopo i risultati amministrativi, non entusiasmanti per Salvini (da Milano a Roma anche se qua - a Bologna - e là - in Veneto - ha buone chance), allorquando il capo della Lega - attenzione, il capo non un iscritto o un dirigente qualsiasi - ha fatto un sorprendente endorsement per le due donne grilline elette a Roma e a Torino. Non pochi sono rimasti basiti al sentire una simile scelta, anche se alcuni immaginano che i voti leghisti ai ballottaggi romani e torinesi potrebbero confluire in automatico alle due graziose candidate pentastellate. Ma se davvero le cose stessero così, se cioè Salvini pensa che la lega è sommabile, meglio, alleabile col M5S, allora dovrebbe preoccuparsi di un partito, il suo, che propende(rebbe) per tali amori politici, dei quali, peraltro, non ci è sembrato visibile alcun segno tangibile: un bacio, un abbraccio, un ciao, un ciaone. Di visibile, anzi di visto, ci sono state le risposte tranchant di Beppe Grillo alle avance salviniane, una di queste a dir poco sanguinosa: “Salvini a Bruxelles - ha picchiato duro Grillo - vota contro la redistribuzione dei profughi in Europa, li vuole tutti in Italia altrimenti finirebbe gli argomenti di cui parlare in televisione, ai talk-show”.
A parte il fatto che Grillo lo ha definito né più né meno un ologramma, il che basterebbe rispondergli brutalmente come faceva un Bossi trionfante, magari con l’ampolla dell’acqua del dio Eridano, lassù nel Monviso. E infatti, il Bossi di oggi, facendo un controcanto politico a Salvini, ha chiarito che lui, se fosse a Roma o a Torino, voterebbe scheda bianca. Lo stesso ha detto Silvio Berlusconi, probabilmente senza consultarsi. Padania, dio Eridano, secessione, trecentomila volontari padani pronti a marciare su Roma ladrona, tutto questo macchinario bellico a parole dell’antica aggressività leghista, per anni assorbita e piegata al disegno berlusconiano di Governo, non solo locale, ha subito la torsione e, al tempo stesso, la mutazione impressa da Salvini puntando decisamente all’estrema destra, donde l’“amour fou” per la Le Pen, le visite affettuose a Putin, i selfie rubati a Trump dai quali emergono caratteristiche assai diverse dal “prima”, a cominciare dall’adesione ad un nazionalismo spinto, dopo aver minacciato la secessione considerando il tricolore un oggetto da toilet, e alla conseguente fuoriuscita dall’Europa.
Tutto legittimo, intendiamoci. Ma per andare dove, politicamente, se non in un vicolo cieco? Difatti, i risultati di queste amministrative sono esattamente capovolti rispetto alle attese “ideologiche” salviniane e stanno a dimostrare che non soltanto le simpatie per Grillo sono, a dir poco, malriposte, ma che la new ideology del leader della Lega non porta lontano, soprattutto nei voti italiani, sol che si pensi al circa 2 per cento ottenuto a Roma. Dove non si capisce come Irene Pivetti, che di politica se ne intende, abbia potuto “bruciarsi” mettendoci la faccia. Ma c’è un punto dolente. Il fatto più grave dell’endorsement salviniano alla due ragazze pulite, giovani ed eleganti romane e torinesi (a naso non ci sembra così scontata una loro vittoria a mani basse perché sia Roberto Giachetti che Piero Fassino sono vecchie e intelligenti volpi della politica, quella vera) consiste proprio nella sua indicazione che proviene, come si diceva, dal leader di una Lega che ha non poche responsabilità condivise col centrodestra nel Paese (Lombardia e Veneto ) e che soprattutto, dette da un capo non possono non irritare gli alleati coi quali potrebbe vincere a Milano, e confondere i propri elettori, già di per sé scombussolati dalla narrazione televisiva roboante salviniana. Un capo non tifa mai per gli avversari. Per principio.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:03