
C’è un filo che lega la mancata introduzione del “vero” reato di tortura con la vicenda del cosiddetto reato di negazionismo? Vediamo le due questioni. Da un lato lo Stato italiano, da qualche lustro, non riesce a dare esecuzione alla Convenzione di New York, sottoscritta nel 1984 e ratificata nel 1989.
In quel testo si definisce la tortura come “qualsiasi atto con il quale sono inflitti ad una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, o punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei od intimidire od esercitare pressioni su di una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su di una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, oppure con il suo consenso espresso o tacito”.
Parole chiare che non abbisognavano altro che di essere trasposte nell’ordinamento, senza particolari sforzi esegetici. In quel testo, infatti, si ritrovano le ragioni ultime e profonde che giustificano l’introduzione di un reato che, a differenza di ciò che sostengono molti interessati legislatori nostrani, è teso principalmente alla tutela del cittadino quando il suo corpo sia nelle mani dello Stato, e non come l’ennesima fattispecie a tutela della persona. Come è facile notare, infatti, l’accento viene posto dalla Convenzione sulla circostanza che chi agisce sia “un funzionario pubblico” e che il fine dei maltrattamenti sia quello di “ottenere informazioni, o confessioni”, ovvero di “punire”. Ciò fotografa quella che è la ratio profonda di un reato siffatto, la quale riposa, come anni fa puntualmente sottolineato da Tullio Padovani, nella circostanza che “... la tortura non offende tanto e solo i beni della persona di volta in volta aggrediti, ma soprattutto demolisce lo status di cittadino e di persona in chi la subisce, degradandolo a oggetto senza diritti e senza tutela: proprio ad opera dell’autorità che di quei diritti dovrebbe essere garante e quella tutela dovrebbe assicurare”.
Ora, è del tutto chiaro che la normativa che ha più volte fatto la navetta tra Camera e Senato non risponde a questo intento proprio perché il reato viene costruito non già come reato “proprio” (cioè che può essere commesso da un appartenente allo Stato eventualmente in concorso anche con un estraneo rispetto all’apparato statale che sarebbe a sua volta punibile come concorrente nel reato proprio, ovviamente), bensì come reato “comune”, che chiunque può porre in essere, salvo essere aggravato quando costui sia un appartenente allo Stato. E questa non è solo una distinzione giuridica, destinata ad appassionare gli esperti della materia, ma un vero e proprio discrimine. Qui da noi, infatti, nelle aule parlamentari si continua a negare ciò che la storia giudiziaria ha dimostrato già da tempo: e cioè il fatto che anche nel nostro Paese la pratica della tortura non è per nulla un incidente, eventuale e sporadico, ma una costante che si ripete nel tempo, soprattutto – ma non solo – in occasione di situazioni che si possono definire di emergenza.
Dalle vicende di Giuseppe Gullotta a quelle del G8 di Genova, passando per la lotta al terrorismo, con in testa i fatti che precedettero la liberazione del Generale Dozier e quella del tipografo delle Brigate Rosse Triaca, per concludere con le storie di Cucchi o le repressioni delle rivolte nelle carceri, il mito degli italiani brava gente che restano lontani dalle pratiche di pressioni o di violenze nei confronti dei prigionieri è tramontato da tempo. Ed il senso è uno solo: c’è bisogno di una norma che reprima innanzitutto il fatto, così ben fotografato da Padovani, del tradimento da parte dello Stato, della signoria che esercita sul corpo delle persone detenute o arrestate, fino a trasformarla in una pratica che viola diritti fondamentali.
Introdurre un reato “comune” è la negazione di tutto questo; o meglio parte dalla negazione che questo sia lo scopo della norma e che tale scopo sia attuale e necessario. Questo è il motivo per il quale quelle forze (non solo politiche ma anche appartenenti all’apparato dello Stato) che hanno ottenuto che per oltre venticinque anni la Convenzione non venisse tradotta in legge interna, si sono sempre battute contro il reato proprio. Il refrain, udito mille volte nelle aule parlamentari, è che “qui da noi non si tortura”; meglio, “lo Stato non tortura”, semmai è “la Mafia che tortura, o i terroristi, oppure i narcotrafficanti”. Un argomento falso, prima ancora che fuorviante, che è servito solo a vanificare fin qui l’introduzione del reato ed a rendere impuniti, di fatto, comportamenti gravissimi commessi da appartenenti allo Stato. Il problema è che i nostri legislatori sono in larga misura, sia a destra che a sinistra, legati ad una concezione autoritaria e Stato-centrica, anche se ciò avviene in maniera spesso inconsapevole.
Ciò che manca è una visione che ponga il cittadino al centro della legislazione penale, come dovrebbe essere per un ordinamento liberale, non lo Stato. Uno Stato che talvolta si vuole difendere contro le stesse distorsioni dei suoi appartenenti, come nella questione del reato di tortura, e in molti altri casi si allarga fino ad invadere, nell’ambito del diritto penale, che è il diritto pubblico per definizione, territori che alla legislazione penale non dovrebbero appartenere. E qui la vicenda si salda con quella del reato di negazionismo. Anche in questo caso si invoca la necessità di dare attuazione a decisioni internazionali, segnatamente la decisione quadro 2008/913/Gai “Sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale”, e lo si fa con maggior solerzia, anche se le proteste degli storici, e qualche anno fa anche dei penalisti, hanno rallentato un iter parlamentare che oggi pare aver ripreso maggior lena. Abbandonata la strada della creazione di un reato autonomo, alla fine si è introdotta una specifica previsione all’interno della “Legge Mancino”, cioè quella che regola le forme di incitamento all’odio o alla violenza per motivi razziali, etnici o religiosi.
Il problema è che, alla fine dei conti, pur non volendo – a parole – introdurre un nuovo reato di opinione, alla fine si è comunque attribuito allo Stato, meglio, alla repressione penale dello Stato, un potere di intervento che prescinde del tutto da quelli che possono essere i criteri distintivi di una democrazia liberale. Lo Stato non scrive la Storia, né può legittimare con la sua autorità una lettura degli avvenimenti storici, e neppure criminalizzarne alcuna, per quanto aberrante e distorta essa possa essere. Il fatto che questa previsione, francamente illiberale, ci venga stimolata dall’Europa (che però non imponeva l’introduzione di un reato) non modifica la conclusione: a parole sono tutti liberali ma quando di mezzo c’è il rapporto tra cittadino e Stato a farne le spese è sempre il primo ma, soprattutto, un’idea dello Stato cui siano estranei l’autoritarismo ed il paternalismo.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:00