
Intervenendo all’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani, il ministro Andrea Orlando ha ammonito a tenere alta la guardia sul “populismo giudiziario” ed a non gravare il processo (e... la giustizia) penale di un’impropria funzione di controllo etico sulle classi dirigenti.
Entrambe le proposizioni non possono che essere condivise da chi ha una concezione liberale delle cose del mondo, e di quelle di giustizia in particolare. Il fatto è, però, che affermazioni simili devono essere poi seguite da scelte conseguenti da parte di chi ha responsabilità politiche. Prendiamo il primo caso, quello del “populismo giudiziario”. Che significa quell’espressione?
Per semplificare possiamo dire che allude alla consuetudine nostrana di rispondere ai fatti che la cronaca giudiziaria propone (meglio ancora al clamore che quei fatti provocano) introducendo nuovi tipi di reato o comunque aggravando sanzioni già esistenti. Il tutto sulla scorta della propagandata inadeguatezza delle norme esistenti a fronteggiare i fenomeni criminali che in quei fatti di cronaca si iscrivono, e nell’ingenua (ad essere benevoli) convinzione che gli stessi fenomeni si possano “governare” attraverso lo strumento legislativo e non rimuovendo le cause che li determinano. In questo senso la “stretta sanzionatoria” o l’introduzione di nuove fattispecie penali sono gli strumenti consueti del populismo giudiziario. Il tutto immerso nella singolare amnesia della classe politica, che in tali casi dimentica di essere intervenuta sulla stessa materia magari solo pochi mesi prima, con ciò dimostrando la contraddizione intrinseca che si annida in ogni forma di populismo.
Ora, se si esamina la vicenda delle norme sulla corruzione che dovrebbero essere varate a breve si possono riscontrare tutti gli ingredienti evidenziati. Di fronte ad una normativa che era stata introdotta nel novembre del 2012, è bastato il clamore della indagine sulla cosiddetta “mafia-capitale” a far proporre l’innalzamento delle pene, ovvero l’estensione della legislazione premiale o delle misure di prevenzione patrimoniali in tema di reati contro la Pubblica amministrazione. Se non è “populismo giudiziario” questo, come lo si deve chiamare? Peraltro, come sempre avviene quando questo copione si ripete, le iniziative di tal genere vengono anche giustificate con il fatto che “occorre dare risposta” alle richieste della pubblica opinione, la quale, per la verità, chiede che i fenomeni vengano fronteggiati ma si affida al legislatore quanto agli strumenti. E che esistano strumenti diversi rispetto a quelli indicati lo racconta da tempo, tra gli altri, anche uno come Carlo Nordio, che di mestiere fa il pubblico ministero. Nordio, ad ogni innalzamento di pene, ripete che la corruzione si batte con la semplificazione delle procedure amministrative, che incide sul fenomeno ben più di pene talmente alte da impedire la sospensione condizionale o il patteggiamento, come vuole la vulgata di questi giorni.
Infine, il populismo giudiziario è generalmente legato ad una escalation in forza della quale c’è sempre uno “più puro che ti epura”. In questo caso, ad esempio, nello sforzo di sterilizzare le iniziative del ministro ombra, Nicola Gratteri, c’è il rischio che Orlando lasci spazio alle idee estremistiche di chi vuole esportare nel campo dei reati contro la pubblica amministrazione anche gli strumenti propri della legislazione antimafia, dai benefici a chi collabora alla introduzione dell’“agente provocatore”. Tutta roba che non sposterà di un millimetro la situazione ma finirà con l’imbarbarire ancor più il processo penale. In nome del più puro populismo giudiziario.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:09