Centrodestra e futuro

Arturo Diaconale, nell’editoriale pubblicato ieri, prende il toro per le corna. E il toro, in questo caso, è il futuro del centrodestra. Dopo aver consegnato ai lettori l’esatta fotografia dello stato delle cose nella traballante coalizione, il direttore offre la sua soluzione: “Se si vuole evitare che il centrodestra si ghettizzi non c’è altra strada che tornare a rendere l’alleanza, tra Lega e Fratelli d’Italia da una parte e Forza Italia e componenti centriste dall’altra, un patto paritario”. Siamo d’accordo. Non avremmo saputo dirlo meglio di così.

Il punto focale su cui è necessario concentrare l’attenzione è nella capacità delle odierne parti in causa di ricercare un nuovo e, se possibile, più avanzato punto di equilibrio nel quadro di un rapporto paritario. È la soluzione. Non ve ne sono altre praticabili perché la “felice anomalia” dell’unità del centrodestra italiano non finisca definitivamente archiviata. Non si tratta di affidarsi a improbabili previsioni aritmetiche: FI + Lega + FdI = vittoria elettorale. La questione è ben più complessa. Si tratta di trovare la sintesi tra idee e progetti non convergenti perché a destra le “convergenze parallele”, di morotea memoria, non funzionano. C’è poi da ridefinire il perimetro del centrodestra in riferimento alla platea elettorale che intende rappresentare. Non è questione irrilevante. La crisi di questi anni ha scavato un solco profondo all’interno della società italiana, aumentando le distanze tra una categoria di garantiti che affronta la quotidianità in modo agevole e senza grossi problemi e un’ampia fascia di popolazione, composta in buona parte da nativi del ceto medio produttivo tradizionale, che invece combatte per sopravvivere. Per non parlare di quei milioni di nostri connazionali precipitati nell’area della povertà. Le ricette che le forze politiche possono proporre all’una o all’altra categoria di italiani non coincidono, anzi potrebbero essere totalmente alternative tra loro.

Per tenersi insieme, il centrodestra non ha altra strada che sottoporsi a uno sforzo supplementare di dialogo tra le sue componenti. Se non si fa così, se non ci si mette in gioco anche oltre il possibile, si finisce come la destra nel resto d’Europa: i moderati da una parte e i radicali dall’altra a darsele di santa ragione. Tuttavia, perché un processo costruttivo veda la luce è indispensabile che tutti rinuncino a perseguire comportamenti egemonici. Sbaglia Salvini quando dice: questo è il pensiero della Lega, chi vuole ci venga dietro. Ma è altrettanto in errore chi, in Forza Italia e dintorni, pensa che la destra radicale debba limitarsi a raccogliere voti per poi affidarne la gestione insindacabile alla parte moderata in nome di una maggiore fruibilità d’immagine di quest’ultima. Non può funzionare così: un patto leonino non sarà mai un accordo equilibrato.

Lo sforzo unitario, inoltre, deve volgere a rafforzare, nell’elettorato di riferimento, la percezione di coerenza del centrodestra. Il cittadino deve essere rassicurato sul destino della sua scelta. Deve contare sul fatto che un voto dato contro il governo oggi in carica resti tale anche nel tempo e non vi sia invece il rischio che la sua volontà venga ribaltata da cambi di cavallo in corsa. È inutile girarci intorno: da Alfano in poi, Forza Italia ha un problema di affidabilità presso i suoi elettori.

Diaconale, da liberale di alto lignaggio, lancia il grido d’allarme: non possiamo morire tutti renziani. Bisogna raccogliere la provocazione con il medesimo entusiasmo con cui, un tempo, un’intera generazione, la nostra, giurò a se stessa: “non possiamo morire democristiani”. Le rendite di posizione sono finite, chi vuole restare in gioco deve sporcarsi le mani e la faccia nel confronto duro con gli alleati senza attendere alla finestra che sia il solito San Silvio da Arcore a pensarci per tutti. Il “Ghe pensi mi” ha chiuso bottega.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 19:44