Referendum: si vota

Il 17 aprile è alle porte e più di un elettore è preso dal dubbio amletico: votare o non votare al referendum? La linea di faglia della politica italiana oggi attraversa la cabina elettorale. Il punto non è se sposare le ragioni del sì o quelle del no alla prosecuzione dell’estrazione di gas e di petrolio dai giacimenti situati in mare a meno di 12 miglia dalla costa.

Se il contenuto del quesito referendario è passato in secondo piano è colpa del solito Matteo Renzi che ha voluto mettere il carico personale anche su una questione che doveva riguardare esclusivamente il “sentire” della comunità. Renzi, con la benedizione del suo sponsor, Giorgio Napolitano, ha detto agli italiani di starsene a casa. Vuole sabotare la consultazione. Allo scopo, i suoi sodali gli tengono bordone ribadendo quanto sia inutile andare al seggio per una questione così poco rilevante. Ora, la domanda è: si fa il bene della democrazia incitando gli elettori a disertare le urne? Qual è il vero obiettivo del signor Renzi? Pensiamo che dietro il consiglio interessato del premier si nasconda un disegno destabilizzante che fa perno sul fomentare una più strutturata ed estesa disaffezione dei cittadini alla modalità di espressione del proprio orientamento tramite il voto.

D’altro canto, l’ultima fase della Seconda Repubblica è stata connotata dalla spinta delle classi dirigenti a vanificare il peso della sovranità popolare nella costruzione del processo politico. Il fenomeno, tuttavia, non è soltanto italiano ma investe l’intero Occidente avanzato. Cresce tra le élite progressiste di ultimo conio il convincimento che una società complessa debba ridurre l’incidenza degli umori popolari e consolidare invece i luoghi della mediazione “in alto” tra portatori di interessi economicamente rilevanti. Se si crede che un algoritmo possa determinare il tasso di felicità degli individui e che solo il mercato debba scandire le fasi della quotidianità, ben si comprende del perché si provi a sottrarre alla forza dei flussi elettorali il condizionamento dei destini della comunità. È il nuovo volto dell’autoritarismo che non ha la medesima faccia truce dei suoi precursori otto-novecenteschi. Esso si mostra con le fattezze rassicuranti delle burocrazie onniscienti, degli organismi sovranazionali, dei grand commis, dei salotti buoni della finanza, dei governi tecnici. Ma al pari dei vecchi autoritarismi anch’esso non pone la volontà popolare non coartata a presupposto della propria legittimazione.

La funzione elettorale, invece, è per definizione esercizio che muove la dinamica sociale. La frequenza dell’espressione di voto vivifica e non annichilisce il tono muscolare di una comunità. In Italia la febbre contaminante delle élite sciolte dal consenso popolare ha colpito più la sinistra nella sua ultima versione di partito- società che la destra. Non siamo ancora al punto dei “ludi cartacei” di mussoliniana memoria ma l’invito renziano a disertare le urne gli somiglia molto. Bisogna perciò temere molto l’odierna proposta astensionista perché più di un’opzione specifica sul tema essa prefigura un’idea di comunità ammutolita.

Una volta qualcuno disse che pagare le tasse è bello ma, aggiungiamo noi, votare è meglio. Andare al seggio non stanca, giacché è il modo migliore per sentirsi liberi. Domani molti italiani saranno titubanti sul che fare dal momento che le ragioni dei due fronti si controbilanciano. Non è dunque facile dire cosa sia più opportuno scegliere. È presumibile che sulla scheda peseranno le diverse sensibilità. Tuttavia, un suggerimento sentiamo di darlo: svegliatevi di buon ora, fate colazione, indossate il vestito più bello e recatevi al seggio, perché è una festa. Non ci sono santi da onorare e processioni da seguire: è un rito laico che celebra la democrazia. Comunque la pensiate, non fate che ve lo portino via.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 19:45