L’Islam e l’album di famiglia

C’era, eccome che c’era, l’album di famiglia dei comunisti. E c’è, purtroppo, l’album di famiglia dell’Islam.

Ma andiamo con ordine, a prima, sul finire dei tremendi anni Settanta. Prima il terrorismo non era rosso, prima la violenza era nera, e prima, infine, le Brigate Rosse erano “sedicenti”, “false”, che agivano nel contesto dello Stato parallelo, dei Servizi segreti deviati e del golpe in agguato. In agguato contro il Partito Comunista Italiano, un “Paese pulito in un Paese sporco” secondo le parole di Pier Paolo Pasolini che dal “Corrierone” indicava nella Democrazia Cristiana la continuazione, in peggio, del regime fascista. E i comunisti a credergli, anzi a venerarlo. Questo prima. Poi, nel 1978, anno del sequestro e assassinio di Aldo Moro, Rossana Rossanda scagliò la pietra dello scandalo, parlò dell’album di famiglia del Pci. Disse che nelle parole delle Br, nei documenti con al centro la classe operaia, negli slogan antisistema, nelle stesse chiamate “rivoluzionarie” dei movimenti alla sinistra antagonista e terroristica del Pci, si poteva percepire l’inconfondibile eco, la chiara provenienza, la comune radice di convinzioni e fraseologie in uso negli anni Cinquanta e, infine, di evidenti ascendenze ideologiche nell’album di famiglia del Partito comunista.

Il Pci, secondo la Rossanda, che pure ne era stata espulsa col gruppo del “Manifesto”, aveva portato nel suo seno i frutti velenosi e sanguinosi di una violenza che da oltre un decennio devastava il Paese. Subito dopo quella “denuncia” da sinistra, il Pci replicò piccatissimo e sdegnato. Il partito accomunò alla Rossanda l’ottimo Francesco Alberoni, che già nel 1976 aveva sottolineato che le Br avevano una base di classe fra gli operai. Apriti cielo! “Gli operai hanno respinto la strategia della tensione, gli operai non incendiano i capannoni. Il Pci è sempre stato dalla parte dei lavoratori, della democrazia, delle istituzioni, della parte sana del Paese”, ecc. ecc..

L’ammissione dell’appartenenza all’album di famiglia di quei gruppi che continuavano a terrorizzare e destabilizzare l’Italia fu respinta al mittente. In nome di quella che Popper chiamava, irridendola, “teoria sociale della cospirazione”, ovverosia quella sorta di filo rosso che tiene insieme la violenza di classe come contrapposta “necessariamente” alla violenza di Stato, la teorizzazione del complotto permanente in nome delle più improbabili dietrologie improntate alla cosiddetta filosofia - pro domo sua - del “cui prodest”. Teoria e prassi della convinzione leninista di una diversità radicale dagli altri, in sostanza la Dc e i suoi alleati, ragion per cui il Pci era stato interdetto - con ogni mezzo, con ogni complotto, con ogni strategia della tensione, con ogni violenza di Stato - di accedere al governo del Paese.

Cosicché abbiamo avuto il decennio degli anni Settanta come prosecuzione peggiorativa degli estremismi distruttivi del 1968, con un Pci ben legato alla casa madre gestita dall’indimenticabile Leonid Breznev e ai Paesi a sovranità limitata di mezza Europa divisa dal Muro di Berlino. Quando il Pci cominciò a prendere atto della consistenza storica e politica delle accuse impietose della Rossanda? Quando a Genova un gruppo armato delle Br uccise l’operaio Guido Rossa, un valoroso iscritto al partito. Da lì, ma intanto le istituzioni da noi erano spaventosamente in crisi, ebbe inizio non soltanto una presa d’atto, ma una riflessione seria e approfondita di quel partito e una lenta marcia di riavvicinamento a una condivisione della democrazia, non più leninistico-gramsciana ma occidentale.

E veniamo all’Islam e al suo album di famiglia. Non scopriamo l’acqua calda nel riaffermare che la stragrande maggioranza dei musulmani di oggi, dentro il nostro Paese e nei loro Paesi di appartenenza, si proclama moderata, pacifica, aspirante al benessere. E i loro governi? E i loro capi, gli imam, i religiosi? I quali, peraltro, si autocelebrano come del tutto distinti e distanti, anzi, orgogliosamente opposti ai costumi del corrotto Occidente. È sempre la sacra, conclamata, superba e inscalfibile diversità altrui. Un dogma.

Ci avrete fatto caso senz’altro: ad ogni bomba assassina, l’imam di turno al talk-show pomeridiano o serale proclama solennemente e seccamente l’estraneità all’Islam dei terroristi, li dichiara al di fuori del Corano che, invece, è religione di pace e di misericordia. A sentire i vari imam e tanti rappresentanti di associazioni, i terroristi islamici, derivanti dal fondamentalismo e dall’integralismo musulmano, sono per dir così figli di nessuno, non fanno parte del mondo che si riconosce in Maometto. Non sono, cioè, membri di una religione, sia pure degenerati. Non appartengono, dunque, al loro album di famiglia. Donde le omissioni, i silenzi, le code di paglia, le non poche bugie. Donde, soprattutto, l’impedimento addirittura concettuale di una parte consistente del mondo islamico di ammettere ciò che era ed è semplicemente e drammaticamente ovvio. Quei terroristi assassini, quei foreign fighters, quegli imam predicatori di violenza in non poche moschee sparse da noi e in giro in Occidente, sono storicamente, ideologicamente, religiosamente, membri del loro album di famiglia. Certo, ammetterlo è doloroso, amaro, tragico. Anche pericoloso per i “pentiti”. Ma fino a quando non giungerà quella confessione pubblica, non inizierà un necessario cammino verso la condivisione di valori, princìpi, leggi e laici comportamenti che sono patrimonio dell’Occidente.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:03