Tutti al talk-show, sì ok ma dopo?

La guerra dell’Isis qui da noi è, innanzitutto, uno spettacolo. E che spettacolo! È un conflitto per dir così da infotainment, da corrida televisiva. E tutti ci vanno, tutti corrono al talk non tanto o non soltanto per farsi vedere, cioè per esistere, quanto soprattutto perché qualsiasi trasmissione di tal genere non offre proposte vere, risposte concrete, ma solo imprecazioni, risse e tante parole, parole, parole...

E dopo il talk-show? Dopo, anzi fuori dal talk, appena usciti dalle porte dello studio, c’è tutto un altro mondo, un universo diverso, tutta un’altra storia, benché le cose siano rimaste come prima, durante e purtroppo dopo lo sfogatoio televisivo. Il mondo, quello vero, sa comunque che le risposte alla tragedia del terrorismo islamico non possono venire dalla tivù, che pure ne è l’illustratrice insostituibile ed infaticabile dopo ogni massacro. Le risposte le può dare soltanto la politica. Che interesse può avere, ad esempio, la filastrocca che ci appioppano da mane a sera le televisioni, con il rappresentante del governo, quello dell’opposizione, in genere trattasi di Matteo Salvini, quello dell’inviato davanti all’aeroporto insanguinato di Bruxelles e, mi raccomando, quello degli islamici moderati, prevalentemente un imam che ripete le stesse identiche giaculatorie dei suoi omonimi sparsi per l’Italia. E poi vai con l’Europa che si sfascia; no, anzi, l’Europa va difesa, ma basta con i migranti, alziamo muri e chiudiamo le frontiere, per carità, senza Schengen, Euro ed Europa vanno a scatafascio, e allora facciamo la guerra, ma no, potenziamo l’intelligence coordinandola con tutte la nazioni europee e, comunque, non cambieremo il nostro modo di vivere, la nostra libertà, i nostri concerti rock, le partite di calcio. E tutti quanti ad annuire pappagallescamente, come se alla minaccia di questo terrorismo non si dovesse sacrificare almeno un po’ della nostra privacy, della nostra way of life. Possibile non capire che nulla sarà più come prima? E perché non dirlo? E vabbè.

A dire il vero, il meno routiniere è stato il sottosegretario Marco Minniti quando l’altra sera ha, finalmente, paragonato la realtà e la potenza dell’Isis di Bruxelles, ma non solo, alla ‘ndrangheta con la sua consolidata presenza criminale in certe città del sud; un’assimilazione da estendere all’afflato nazista che dà impulso allo stragismo di Daesh e ai killer in giro per l’Europa, in prevalenza quasi assoluta nati in Europa, cresciuti in città e Paesi europei, e ho detto tutto. Ciò premesso e fermo restando che le potenzialità della tivù e degli stessi talk-show, pur nella loro onnivadente ossessività semplificatrice sono sempre necessarie alla comprensione di quanto accade, va aggiunto un dato di fondo per così dire filosofico, un assunto, un preambolo che ha a che fare con l’atteggiamento degli europei rispetto alla guerra, cioè alla morte e, per converso, alla vita, alla sopravvivenza. È lo stesso atteggiamento che mostriamo nei confronti delle immani emigrazioni, percepite come invasioni barbariche, dal mare o dai Balcani, con potenziali infiltrati terroristi. È la paura. Che cresce e si espande in cerchi concentrici soprattutto perché l’Europa ha dimenticato e rimosso i lontani secoli del terrore suscitato dalle invasioni, che erano e sono nient’altro che migrazioni che premono altri migrantes fino al traguardo del benessere agognato. Finiti nel profondo bagaglio della rimozione, questi fenomeni invero epocali, ci hanno trovati impreparati, al punto che un Continente di oltre mezzo miliardo di abitanti, fra i più benestanti nel mondo, non è in grado di assorbire tre o cinque milioni di profughi (veri) trasformandoli in suoi cittadini che condividono gli stessi princìpi scritti nella Carta dei diritti dell’uomo.

Ma il punto dolente, la centralità più preoccupante, sta nella mancanza di una leadership morale e politica di questo Vecchio Continente, di una guida che indichi la strada maestra in situazioni eccezionali ancorché durature come quelle scatenate dall’Isis. Il balbettio che si sente, i vertici che si susseguono, le promesse che si inanellano strage dopo strage, manifestano l’analoga paura dei loro popoli ma dimostrano la loro disperante pochezza nell’incapacità ad assumere una decisione chiara, non ad una guerra da fare (nel diffuso politically correct si teme persino la pronuncia della parola) ma rispetto ad una guerra che è stata dichiarata contro di noi, da tempo. Una guerra diversa, pulviscolare, inafferrabile e incomprensibile là dove eravamo abituati a vedere i soldati che andavano a combattere, se del caso anche ad uccidere il nemico, ed ora osserviamo stupefatti una sottospecie di soldati in borghese che vanno ad uccidere se stessi pur di massacrare decine e decine di innocenti (infedeli) che, magari, vivono in quartieri contigui ai loro divenuti nel tempo, roccaforti impenetrabili, inespugnabili, con la Sharia, la sudditanza della donna, le preghiere del venerdì contro l’Occidente corrotto. Quando ci dichiarano guerra a base di attentati e stragi, ci si deve difendere, non esistono neutralità attive o passive.

Ha ragione il Cavaliere quando suggerisce che all’Isis va tolta l’acqua (petrolio) di cui si nutre nei territori occupati col terrore, dopodiché il nutrimento mancherà anche ai killer a spasso per il mondo. E ha ancora più ragione il Premier Benjamin Netanyahu quando annuncia da Gerusalemme che non dobbiamo più offrire all’Isis delinquenziale il sangue innocente di Bruxelles, Parigi, California, Cisgiordania, Spagna, Tunisia. Non passeranno. Non praevalebunt, è il messaggio chiaro e forte. E senza lacrime.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:59