Il centrodestra   e la scuola romana

Dal nichilismo nietzschiano in poi abbiamo imparato che, differentemente dagli archetipi, le idee tramontano. È accaduto alle grandi ideologie del Novecento, succede oggi di assistere all’esaurimento di processi politici e culturali che per qualche momento sono apparsi illusoriamente irreversibili. Questa è la lezione che sta al fondo del disastro romano sulla scelta del candidato sindaco della coalizione del centrodestra. L’intuizione che sorresse la discesa in campo di Silvio Berlusconi, nel 1994, oggi non è più attuale. L’imprenditore prestato alla politica aveva compreso che solo riunendo sotto un’unica bandiera tutte le opposizioni alla sinistra si potesse impedire il trionfo in Italia del post-comunismo innervato da un non meno pericoloso cattolicesimo massimalista. Berlusconi è stato il cuore e il simbolo dell’Italia bipolare. Un bipolarismo che, in coerenza con il suo tempo storico, ha assunto una dimensione antropologica e prepolitica. Oggi il mondo, con le civiltà che lo popolano e le economie che lo muovono, è profondamente cambiato. Nuovi bisogni si sono imposti nelle vite dei singoli individui e delle comunità che richiedono alle classi dirigenti un riposizionamento strategico. Le vecchie coalizioni del bipolarismo novecentesco, fondate sul binomio Destra-Sinistra, sono superate. Guardiamo cosa sta accadendo nel centrodestra: le visioni del mondo di cui sono portatrici le sue diverse anime hanno perso la forza, e la voglia, di fare sintesi. Accade in Italia ciò che da tempo si verifica nella maggior parte dei Paesi dell’Unione: non esiste in natura un “centrodestra”, ma solo “Destre” che si combattono aspramente l’un l’altra. Come in Francia, dove il Front National di Marine Le Pen e i “Repubblicani” di Nicolas Sarkozy sono nemici acerrimi.

Quello a cui stiamo assistendo in Italia è un’evoluzione del tutto fisiologica della politica verso un’armonizzazione con il quadro europeo. Solo il persistente effetto del “miracolo” berlusconiano aveva finora consentito che si determinasse un’anomalia del centrodestra italiano rispetto al resto dello scenario continentale. In molti obiettano che questa “europeizzazione” consegnerà il potere alla sinistra, condannando una parte maggioritaria del Paese, pur nelle sue diversissime declinazioni, all’irrilevanza. È probabile che sia così. Tuttavia, si può anche vincere uniti ma se la si pensa tanto diversamente non si va lontano. Non sono pochi coloro che nel centrodestra, pur di evitare di finire sfracellati nelle urne romane, stanno riconsiderando l’ultima spiaggia delle primarie. Sarebbe un modo per tentare di incollare i cocci del vaso rotto.

Ma prima bisognerebbe rispondere alla domanda posta ieri da Arturo Diaconale: può una soluzione tecnica colmare un vuoto di strategia politica? Il punto è esattamente questo. È inutile girarci intorno: Matteo Salvini ha sparigliato il gioco, rompendo dove la coalizione vive le maggiori contraddizioni. Nel mirino dell’offensiva leghista, più che la leadership berlusconiana, è entrata quella porzione di Forza Italia, radicata nella Capitale, che ha una genealogia spiccatamente democristiana e sostiene posizioni tradizionalmente più moderate e in linea con quelle del popolarismo europeo. È verosimile immaginare che una conta possa risolvere il problema? Logica vorrebbe che si chiamassero i propri elettori a decidere su chi puntare per guidare la battaglia in presenza di una piattaforma comune di azioni da promuovere. Ma quando i contenuti latitano e le campane suonano note dissonanti su cosa s’interpella la comunità? D’ora in poi ci si abitui a pensare che il centrodestra sia finito. Kaput. Ci si metta una pietra sopra e si cominci a ricostruire qualcosa di nuovo dalle fondamenta. È la vita degli uomini che va così. E le idee, com’è noto, camminano sulle gambe degli uomini.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:01