Fare politica fra cause fittizie e pretesti vari

“Pretesto: motivazione speciosa intesa a nascondere o giustificare qualcosa”. Così il Grande Dizionario Utet che la sa lunga sui significati delle parole. E, che siano pretesti belli e buoni quelli che sentiamo riempirci le orecchie da destra e da sinistra, persino un’ovvietà. Solo che andando avanti così, di pretesto in pretesto, di speciosità in speciosità, il rischio più diretto è proprio per coloro che in politica sono, per l’appunto, pretestuosi. Per i cittadini normali, quelli che dovrebbero votare a Roma, Milano, Napoli, ecc., il rischio è indiretto, ma pur sempre micidiale: quello di non recarsi alle urne. Doppio, dunque, il pericolo per i tanti che sul palcoscenico politicante hanno imboccato la strada delle motivazioni non concrete pur di perseguire uno scopo finale, una meta che, quella sì, rischia di non essere agguantata.

Lo spettacolo inscenato a Roma un po’ da tutti, ma in specie dalle impennate (chiamiamole così) di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ha provocato qualcosa di diverso da una frizione all’interno di un’alleanza iscrivendosi, piuttosto e purtroppo, in quel quadro di “cause fittizie addotte per mascherare la finalità reale di una certa azione”. In parole meno auliche dell’Utet, la faccenda della maternità imminente della Meloni come causa assolutamente non dirimente per diventare sindaco, e perciò scatenata dagli interessati contro quelli non politicamente corretti, Guido Bertolaso e seguenti, è una sorta di cover up dietro cui avanza e galoppa il motivo, più o meno duplice ancorché legittimo, di imporre un disegno politico alternativo al proponente Silvio Berlusconi, tuttora schierato sull’antica proposta bertolasiana, della quale tutta la ormai fu alleanza aveva per dir così giurato.

Naturalmente la politica non è esattamente una linea retta e, coniugata nel tempo a sua volta imprevedibile, potrebbe far scaturire altre soluzioni o, chissà, rientri all’ovile, peraltro ipotetici ma da non escludere. Il risultato comunque non potrà essere un trionfo per il centrodestra, con riflessi negativi sugli accordi milanesi, non fosse altro perché il voto di opinione che nutriva e nutre quell’elettorato risente di quel genere di filmaccio in visione nella Capitale.

Il fatto è che l’impolitica dei pretesti è il pane quotidiano della cosiddetta dialettica interna al Partito Democratico e alla sinistra in genere. Il caso di Napoli fa storia a sé, pur rientrando nel quadro di riferimento, laddove i trucchi delle primarie reclamavano una finalità travalicante la questione del Comune e dello stesso sfidante Bassolino contro la candidata Valente voluta da Matteo Renzi. Lo scontro era, è e sarà contro Renzi nella misura con la quale la minoranza del suo partito non si rassegna allo stato delle cose, vale a dire alla privilegiata condizione di “datore delle carte” del Premier, destinato a durare proprio in virtù di un accanimento terapeutico, la cui ricetta deriva dall’assunzione del pretesto invece che della ragione vera, della motivazione fittizia invece che della causa primaria: che era ed è politica.

Combattere Renzi dall’interno è un compito, un diritto della minoranza. Come diritto, può tranquillamente consentire le più svariate tecniche di battaglia in una guerra sui generis, ma non dimenticando mai che da sempre “silent enim leges inter arma”, non si può invocare la legge normale quando si è in guerra ,e quando la è persa. Il che vale per chi si batte minoritariamente e dunque ricorrendo ai pretesti, ma vale anche e soprattutto per chi comanda e si fa un baffo dei pretesti, anzi, li utilizza per rovesciarne le conseguenze sugli avversari. Ma il pretesto più vistoso, simbolico, quello che nella graduatoria immaginaria merita il Guinness dei primati, è la costante e sbandierata accusa di progressivo “verdinismo” del partito. Secondo gli stessi ideologi del Pd che si riconoscono in Massimo D’Alema, i voti di Verdini non soltanto sono determinanti per il Governo, non soltanto provengono da un leader del berlusconismo, ma sono nientepopodimeno che un grave, gravissimo pericolo per l’essenza, la storia, il divenire del Pd. Avete capito bene: Verdini come un rischio per l’identità di un partito che, pure, lo si vuole venuto da lontano, ricco di storia e di passioni, di idee e di ideali. Specialmente di pretesti. Che se poi la minoranza del Pd vede la proprio identità minacciata da Verdini, allora è proprio vero che è alla frutta.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:02