Falsi pacifisti contro   inesistenti bellicisti

I “fatti” dell’Università di Bologna, Angelo Panebianco e gli studenti. I pacifisti contro i guerrafondai. Più fattacci che fatti. Soprattutto più falsità che innocenza in quella parola “pacifista” che, sbandierata da studenti contestatori, un déjà-vu incredibile ma vero, ha impedito una lezione ad uno dei nostri più stimati (e pacifici) storici e politologi sull’attualità, fra cui il Medio Oriente e l’affaire Libia, cui aveva dedicato un articolo sul “Corsera”.

La sua definizione di guerrafondaio (contro la Libia) è ancora più falsa dello slogan con cui inneggiavano in un’aula universitaria della storica Alma Mater. Non ci stupiamo più di tanto, ovviamente. Ma non solo perché il fiume torbido del dopo Sessantotto è per dir così carsico, appare e compare, esce e poi s’inabissa, benché di acqua di un tal fiume ne sia passata tanta sotto i ponti. Acqua passata. E, diciamocelo, ciò che poteva somigliare ad una storia tragica in quegli anni violenti è oggi, né più né meno che una farsaccia.

Eppure, a guardare un po’ bene dentro quegli accadimenti, sarebbe lo stesso Panebianco ha scorgervi echi e similitudini con la nostra vicenda storica, che con la Libia ha avuto molto a che fare. Il punto discriminante della questione è che la questione libica di oggi è affatto ribaltata rispetto a quella dei tempi di Giolitti. La Libia di oggi, reduce dal disastro successivo ad una finta primavera, con la fine vera e sanguinolenta di Gheddafi, è la preda ambita del Califfato islamico perché il quadro del Paese è incertissimo e instabile sol che si pensi alla sua composizione in cui sono una ventina o trentina di tribù a comporre la struttura (si fa per dire) dello Stato.

L’Isis è già in Libia, si è installata con i suoi avamposti mortiferi, minacciando non soltanto l’Italia ma, prima di tutto, la Tunisia certamente più vicina ma anche più indifesa e fragile. La Libia di allora, dei tempi in cui Giolitti approfittava della liquefazione dell’Impero Ottomano per inviare i nostrani “boots on the ground”, gli stivali sabaudi sul territorio, onde assicurarsi un posto al sole sulla Quarta Sponda, non sapeva cosa fosse il terrorismo. Semmai, di terrorismo di Stato, ma italiano, qualcuno scrisse anni dopo, nel corso della nostra occupazione, quando Rodolfo Graziani braccò ed eliminò brutalmente Omar al-Mukhtar, l’indomito combattente, colui che fu chiamato il Garibaldi dell’indipendenza di Tripoli e Bengasi, del Fezzan e della Cirenaica. La guerra giolittiana di Libia produsse in Italia l’infiammarsi di un massimalismo, socialista ma non solo, di cui Mussolini fu il vessillifero, insieme al repubblicano Pietro Nenni, con violente manifestazioni in Romagna e dintorni, assalti di municipi, interruzioni di ferrovie e quant’altro. E fu la settimana rossa. Ma non c’erano soltanto i contestatori di un’azione iscritta nel Dna del colonialismo europeo, benché in ritardo. La conquista della Libia, peraltro ridotta alla sua parte affacciata sul Mediterraneo, era salutata generalmente da cori di entusiasmo popolare su cui si elevavano le fiammeggianti invocazioni di poeti come Giovanni Pascoli invocando la missione civilizzatrice dell’Italia: la gran proletaria si è mossa, recitava con enfasi.

La similitudine fra ieri e oggi è dunque solo apparente, in contesti diversissimi, con attori completamente diversi e con risultati penosi e squalificanti per chi li ha provocati. Propugnando un pacifismo falso, l’ignoranza mescolata alla malafede, ha rivelato purtroppo il lato oscuro di una certa protesta “studentesca”, la cui intolleranza nei confronti di un bravo docente ricorda quella post-sessantottina, ma con una postilla inquietante rispetto al quadro politico attuale in cui spicca la minaccia del terrorismo del Califfato nazista e mafioso, sempre più incombente, sempre più vicino a noi; anzi, di fronte a noi. Cosicché, richiamarsi al pacifismo ammantato di anticolonialismo è un’operazione totalmente ingiustificabile e oggettivamente contigua ad un nichilismo che gioca solo a favore dei criminali del Daesh. Ho detto nichilismo, ma forse la parola è troppo importante. Forse, anzi senza forse, si tratta soltanto di teste vuote.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:00