
Più che di riabilitazione sarebbe il caso di parlare di scuse (tardive) ad un autore la cui riscoperta serve, tuttavia, a spiegare l’impressionante galleria di facce di bronzo della nostra cultura-informazione. È chiaro che stiamo parlando di Checco Zalone, anzi riparlando giacché su questo giornale nel dicembre del 2013 gli dedicammo una sorta di ritratto insistendo (già allora non è incredibile?) proprio sulle tantissime “facce di bronzo” del politically correct ferocemente astiose nei confronti di quello stesso regista che oggi osannano. “Ha ragione Checco Zalone, eccome!” era il titolo di allora, concludendo che avrebbero fatto bene, sia Matteo Renzi che Angelino Alfano, ad andare a vedere il film di Zalone “Cado dalle nubi” non solo per rilassarsi un po’ ma per curarsi intellettualmente, confrontandosi col vero interprete- protagonista del nostro Paese sempre sull’orlo di una crisi di nervi; un autore la cui rappresentazione dall’interno della pancia del Paese “costituisce la più vera narrazione storica, politica e sociologica dell’Italia della quale il cinema di Zalone è specchio, immagine e, al tempo stesso, reazione irridente, anarchica, ingenua, anticonformista, irriverente contro tutti, cioè politicamente scorretta”: perché dice la verità.
L’invito al cinema zaloniano a Renzi (e Alfano) è stato accolto con più di due anni di ritardo, almeno dal Premier, che ha dichiarato di essersi divertito molto, di disprezzare i critici d’antan contro l’autore oggi alla moda, del quale riconosce, comunque, la grande abilità nel marketing del suo ultimo film. Meglio tardi che mai, beninteso. Il punto più vero del successo di Zalone sta nell’ingenuità, costruita con enorme cura anche nei dettagli, con la quale si pone nei confronti della materia narrativa senza sposare alcuna idea politica ma, al contrario, smontando tutti i luoghi comuni edificati in nome del politicamente corretto, che è la vera peste intellettuale dei nostri tempi e che costituisce il mostro del pensiero unico al quale sacrificare libertà di scelte, fantasia, poesia, e la politica stessa.
Il successo di “Quo vado?”, pur non essendo cattivo come l’ormai cult “Cado dalle nubi”, sta dunque nella revisione integrale dei canoni cinematografici, superando di slancio sia i cinepanettoni eredi della commedia all’italiana, ormai logorati da oltre un ventennio di successi, che, soprattutto, il cinema e gran parte della televisione di satira di un periodo storico dopo il 1994, con l’avvento cioè di Berlusconi. Fu il tempo del “Caimano”, tanto per semplificare, per intenderci del nannimorettismo di lotta, di governo, e infine di delusione, in cui la deriva anti-Cav. si impancò a inattaccabile sedia gestatoria, una sorta di luogo irraggiungibile, immacolato e dispensatore di licenze morali i cui detentori sembravano essere soltanto coloro che pretendevano dalle vestali che recassero doni al mostro sacro, occultando così la verità ovverosia di portare il proprio cervello all’ammasso.
Scrivendo tanti anni fa di Totò, il grande Aldo Palazzeschi ebbe a dire: “È apparso all’orizzonte del cinema italiano come un arcobaleno dopo il temporale”, allo stesso modo oggi si può affermare che il trionfale successo di Zalone sopraggiunge come un soffio di liberazione, una ventata rigeneratrice che farà bene non tanto o non soltanto ad un nostrano cinema sempre più asfittico e ripetitivo, ma soprattutto ai tantissimi cervelli portati all’ammasso, liberandoli da una cappa che sembrava inscalfibile tanti ne erano i sacerdoti. Libertà della fantasia significa innanzitutto liberazione dal luogocomunismo. Ed è questa la lezione più vera che ci proviene da “Quo vado?”, alla faccia delle facce di bronzo. Ancorché pentite.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 19:33