
Scoppia l’ennesimo scandalo e nello stesso giorno compaiono le interviste del Procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone e del ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio. Interviste che vanno lette sinotticamente. Perché mentre il magistrato sollecita la politica a fare la sua parte nella lotta alla corruzione, l’esponente del governo sostiene che l’Esecutivo sta facendo la pulizia richiesta sollecitando il Parlamento ad approvare il nuovo codice degli appalti dopo aver varato la legge sull’auto-riciclaggio ed aver dato maggiori poteri all’Autorità Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone.
In questa sinossi ciò che colpisce non è la contestualità della richiesta di Pignatone, richiesta che nasconde la convinzione dell’incapacità della politica di fare la sua parte, e la risposta di Delrio che rivendica l’impegno profuso dal governo nella lotta al malaffare. È la constatazione che dietro l’appello di Pignatone si nasconde la critica alla politica di non adottare con la solerzia necessaria le indicazioni della magistratura per una più efficace lotta alla corruzione.
E nella intervista di Delrio c’è la risposta del governo di aver adottato prontamente tutte le misure chieste dai magistrati e di essere andato anche oltre affidando ad un magistrato come Cantone poteri potenziati per la lotta alla corruzione. Nelle parole del procuratore e del ministro, in sostanza, c’è la storia del rapporto che si è creato negli ultimi anni tra magistratura e politica, un rapporto in cui non esiste una dialettica tra i due soggetti ma una totale di dipendenza. La magistratura chiede e la politica esegue. E non basta. Per dimostrare la propria sostanziale subordinazione chiama gli stessi magistrati a svolgere compiti che nella normalità dovrebbero essere attribuiti a politici.
Il caso Cantone è emblematico. Costituisce la dimostrazione più lampante della rinuncia della classe politica a svolgere le proprie funzioni naturali e rappresenta il tacito riconoscimento da parte della politica che l’unica categoria ad avere carisma e legittimità a condurre la lotta contro il malaffare è la magistratura. Ed il caso Catone non è isolato ma l’ultimo anello di una catena infinita che da Emiliano a De Magistris, da Trifuoggi e Sabella, rende evidente come la politica abbia di fatto rinunciato a dare un proprio autonomo contributo alla battaglia per la legalità ed abbia abdicato in favore della categoria dei magistrati.
Tutto questo non ha ancora prodotto la “Repubblica delle toghe”, ma ha determinato il prevalere della politica della repressione, espressione della cultura requisito professionale della magistratura, su quella della prevenzione che dovrebbe invece far parte della cultura di una classe politica consapevole di avere come compito quello di incidere sui problemi della società nazionale.
Vent’anni di politiche esclusivamente repressive non hanno estirpato i fenomeni corruttivi. Forse è arrivato il momento che la politica recuperi il proprio ruolo. Ed incominci a riflettere sulla necessità di invertire la rotta partendo dal presupposto che per combattere efficacemente la corruzione non c’è altra strada che smantellare il sistema burocratico-clientelare che domina ed affligge il Paese.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:18