Detenuti e diritti,  l’esempio di Halden

Si è tenuto nell’Aula Magna della Corte di Appello di Palermo, lunedì scorso, un importante incontro sul tema carcere, organizzato dai Colleghi palermitani dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati (A.I.G.A.). È stato un momento di confronto e dibattito tecnico e culturale con giornalisti, avvocati, magistrati e dirigenti di P.A. sulla realtà che vivono i detenuti nelle carceri italiane e, al netto della buona volontà che difficilmente difetta tra coloro che operano nel “mondo carcere”, non è stato possibile ravvisare aspetti positivi.

La situazione carceraria italiana com’è oggi, purtroppo, si sviluppa a causa di un’incessante attività politica basata, però, sulle urgenze legislative e sui mal di pancia dei cittadini; passa, poi, da una burocratizzazione per l’applicazione dei diritti civili essenziali, di solito violati; si determina, infine, sull’attività di volontariato che non sempre, come fisiologico che sia, è improntata alla preparazione psicologica e/o giuridica necessaria per affrontare e risolvere tutte le questioni che possono scaturire da coloro che si trovano ristretti.

Eppure, il carcere è una realtà di esseri umani, con volti, nomi, una storia e un futuro, detenuti o in attesa di giudizio, ed anche operatori di polizia penitenziaria, educatori (oggi cosiddetti funzionari area psico-pedagogica), funzionari dell’area amministrativa, sacerdoti, medici, infermieri. Un mondo vivo del quale, tuttavia, si vuole parlare pubblicamente solo per invocare maggiore sicurezza e ferrea risposta sanzionatoria contro i responsabili di quello o di quell’altro reato. Appena l’altro ieri, proprio su questa testata, l’ottima Barbara Alessandrini denunciava pubblicamente per ciascun detenuto suicida o morto per cause ancora da accertare i nomi, gli anni, i paesi di provenienza.

Questo incancrenirsi d’insofferenza annosa e mista a problemi strutturali e nomativi crea, inevitabilmente, il peggioramento di tutto il sistema che non riguarda, però, a guardare bene, solo i detenuti e le loro famiglie ma riguarda i diritti civili di ciascuno di noi. Lasciare che si vìolino i diritti fondamentali, come, per esempio, il diritto alla salute di una persona ristretta all’interno di uno spazio gestito dallo Stato e che, proprio per tale motivo, dovrebbe essere ancor più sottoposta a controlli, visite, cure ed assistenza, non peggiora, forse, la prestazione sanitaria pubblica che interessa tutti noi? Dimenticare che anche chi è in carcere possa, ed anzi, essere correttamente istruito, non rende meno efficace e capillare la bontà dell’istruzione pubblica? E cosa dire, poi, del potenziale lavorativo e reddituale onesto, lecito, al servizio della società che questi soggetti potrebbero esprimere, solo che si favorisse la loro capacità, la loro volontà di apprendere un lavoro e di diventare, o ritornare ad essere, soggetti capaci di far camminare onestamente la nostra società? Il carcere com’è oggi, quindi, risulta essere principalmente un gravissimo problema di carenza di cultura sociale, di diritti civili e della loro irrinunciabilità; problema che è sfuggito di mano a politici, medici, legislatori, insegnanti, magistrati, avvocati, giornalisti, scrittori, ecc. ecc., tutti parimenti responsabili dell’abdicazione del diritto sacrosanto di conoscere ed insegnare i nostri diritti civili, che tutti possediamo dalla nascita ma che non si possono perdere, se non nella forma e nei limiti che la legge può imporre.

La legge, in effetti, può imporre la privazione della libertà di movimento (sanzione detentiva o misura cautelare custodiale) ma non anche la privazione dei diritti alla salute, all’istruzione, al lavoro, alla famiglia, alla sessualità, alla religione, all’informazione, se non quando espressamente limitati per particolari tipologie di reati e per un lasso di tempo specifico. Allora, forse, si dovrebbe riprendere l’insegnamento sin dalle scuole elementari dell’educazione civica, falcidiata con una delle mille pessime riforme scolastiche.

E, auspicando che questo nuovo passo culturale sull’insegnamento die diritti civili diventi il nostro futuro più prossimo, potrebbe aiutarci verso la civilizzazione della Giustizia penale e del carcere italiano, anche il seguire modelli virtuosi come, per esempio, quello del carcere di Halden, in Norvegia, dove si applica, dal 2010, la cosiddetta sicurezza dinamica che è una differente impostazione del rapporto fra operatori di sicurezza (polizia penitenziaria) e persone detenute. In questo istituto penitenziario, infatti, gli agenti, di polizia vengono debitamente formati per svolgere attività in relazione costante e diretta con le persone sottoposte a pena detentiva, sollecitandole giornalmente a “sfruttare” in modo positivo la permanenza in carcere, studiando, lavorando, producendo anche reddito onesto, con un’incidenza finale di recidivanza pari quasi a zero ed una qualità della vita degli stessi poliziotti, delle loro famiglie e dell’intera società decisamente ottimale.

D’altronde, anche in Italia si tratterebbe solo di dare reale applicazione al concetto costituzionale di rieducazione e risocializzazione che pure è impartito alla polizia penitenziaria italiana, ai dirigenti amministrativi, ai magistrati, ai giornalisti ed agli avvocati durante la loro formazione professionale; il tutto, con spesa per i cittadini pari a zero ma con un ritorno di elevazione culturale e sociale senza limiti.

 

(*) Coordinatore regionale Puglia dei Giovani Avvocati di A.I.G.A.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:11