Rottura evitata,   logoramento certo

Nessuno voleva sul serio rompere sulla riforma del Senato. Non lo voleva Matteo Renzi, che non aveva alcuna intenzione di aprire un conflitto istituzionale con Sergio Mattarella per andare alle elezioni anticipate e sbarazzarsi una volta per tutte dei suoi oppositori interni. E non lo volevano neppure i suoi nemici interni ed esterni, ancora del tutto impreparati ad affrontare una fine traumatica della legislatura ed il ricorso al voto prima della scadenza naturale.

Tutti cercavano un pretesto per trovare un compromesso e chiudere la vicenda della riforma del Senato. E ora che questo pretesto è stato trovato e porta il nome di Pinuccio Tatarella, artefice della trovata sulle elezioni regionali che dovrebbe essere applicata anche per i senatori rappresentanti delle regioni, tutti tirano un sospiro di sollievo. Le elezioni sono scongiurate e fino al 2018 ognuno può stare tranquillo.

Ma questo sospiro di sollievo nasconde alcune conseguenze provocate dalle tensioni di questi mesi che nell’ultimo scorcio di legislatura potrebbero risultare particolarmente incisive. La prima è che la partita del Senato si è svolta solo ed esclusivamente all’interno del Partito democratico e non ha coinvolto né le altre forze della maggioranza, né gli altri partiti dell’opposizione. Si è trattato di un ennesimo capitolo di quella infinita battaglia congressuale che si combatte nel Pd dal momento dell’apparizione della cometa Matteo Renzi? Oppure è la dimostrazione che il sistema politico italiano è ormai tornato ad essere un sistema, come all’epoca del cosiddetto regime democristiano, in cui c’è un solo partito che decide le sorti del paese contornato da qualche satellite ininfluente e con una opposizione che tale è destinata a restare per l’eternità?

Qualunque sia la risposta all’interrogativo è facile rilevare come il dibattito politico italiano si stia trasformando in una sorta di referendum continuo su Matteo Renzi. Il ché può esaltare la vanità del Premier, ma dovrebbe farlo riflettere sul fatto che l’Italia non è la Grecia e non è detto che la sua sorte sia quella di diventare l’Alexis Tsipras nostrano. Tanto più che proprio la vicenda della riforma del Senato ha messo nuovamente in mostra l’insopprimibile tendenza di Renzi ad operare politicamente a colpi di strappi e di forzature. Che lasciano sul campo morti e feriti tra gli sconfitti ma che alla lunga provocano ostilità e risentimenti impossibili da superare. Da oggi alla primavera del 2018 la strada è ancora lunga. E c’è tutto il tempo perché queste ostilità e questi risentimenti si coagulino e trovino uno sbocco nell’atto conclusivo del referendum su Renzi!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:14