
La vicenda delle nomine per la governance della Rai si è chiusa bene. Il contributo del centrodestra all’individuazione di figure di solido profilo professionale c’è stato e non per gentile concessione di “Re Matteo”, ma perché imposto dalla legge. Proprio dalla vituperata “Gasparri”, che ha assicurato equilibrio e pluralismo nella gestione della più grande azienda culturale e d’informazione del Paese. Qualcuno ha visto nell’intesa raggiunta sulla presidenza e sulla composizione del Consiglio di amministrazione della Rai un ritorno dello spirito del “Nazareno”. Non è così. Il centrodestra berlusconiano resta all’opposizione di questo Governo. D’altro canto, non si comprende quale vantaggio potrebbe recargli l’inciucio con la maggioranza renziana. Le urne delle elezioni amministrative hanno mostrato in modo incontrovertibile la contrarietà dell’elettorato berlusconiano a vedere intorbidite le acque da incomprensibili intelligenze con l’avversario.
In Italia, benché si tenda a nasconderlo, le differenze tra destra e sinistra esistono, sono radicate nel sentire del popolo e non sono riducibili se non in casi eccezionali nei quali sia in gioco la sicurezza dello Stato. Quindi, se a qualcuno fosse venuto in testa di resuscitare il Nazareno per un “accordicchio” sulla riforma dell’architettura istituzionale, sbaglierebbe di grosso. Sbarazziamoci una volta per tutte del falso mito delle larghe intese come panacea di tutti i mali. Alla base di ogni modifica degli assetti istituzionali vi è una visione dello Stato e della democrazia che non è la stessa per la destra e per la sinistra. La riforma del Senato non fa eccezione. Che la seconda Camera dovesse essere considerata un inutile fardello lo hanno pensato da sempre i comunisti. Non è un caso che lo abbia implicitamente ricordato proprio Giorgio Napolitano. Nella sua recente lettera al Corriere della Sera, l’ex presidente della Repubblica, a proposito della necessità di conservare l’impianto della riforma in discussione per la terza lettura al Senato già “... ampiamente concordato in molteplici occasioni e luoghi istituzionali negli ultimi anni”, ha aggiunto in parentesi “per non parlare di precedenti molto più lontani”. A cos’altro, lui impenitente fautore del comunismo all’occidentale, si sarebbe riferito se non al programma del Pci togliattiano dei tempi della Costituente? Basterebbe solo questo particolare per spingere i rappresentanti del centrodestra a riflettere attentamente sui passi da compiere.
La riforma che vuole Renzi viene presentata come modello di semplificazione dell’iter di approvazione delle leggi. Tuttavia non viene detto che la sterilizzazione di un ramo del Parlamento vulnera il potere legislativo, che rischia di finire sotto il tallone dell’Esecutivo per effetto del combinato disposto con le premialità previste dalla nuova legge elettorale. Buon senso consiglierebbe di favorire il dinamismo del Paese, non facilitando la vita a chi vorrebbe più leggi ma tagliando quelle che ci sono. Si tratta di ridare ossigeno agli italiani oppressi da un potere burocratico fondato sull’ipertrofia delle norme. Se volessimo adeguarci ai partner europei dovremmo varare un ordinamento giuridico composto di poche leggi chiare, scritte meglio e, soprattutto, concretamente applicabili.
Il centrodestra, ferito dal calo di fiducia degli italiani, ha iniziato un serio percorso di ripensamento di se stesso e della sua proposta politica. Non sarebbe questa riforma del Senato, che prevede l’abolizione dell’elezione diretta dei suoi membri, un buon motivo d’opposizione? Si lasci pure che la maggioranza si cucia l’abito a propria misura, se ne sono capaci. Saranno gli italiani, come già è accaduto nel 2006, a dire l’ultima parola con il referendum confermativo. E non si faccia tentare, questo centrodestra, dagli ammiccamenti di un Renzi-Re Travicello in crisi di idee e di consensi che pensa di poter sbarcare il lunario facendo il gioco delle tre carte.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:13