
Questa estate verrà ricordata per il caldo record e per la liquefazione del progetto chiamato Partito democratico.
Quello che ci consegna il dibattito politico di questi giorni si riassume nel fallimento di una fusione fredda che ha resistito fin quando le parti in campo erano rappresentate dalle correnti del post-comunismo e del popolarismo cattolico di matrice dossettiana. L’esperimento non contemplava l’apertura al ceto medio in fuga dalla casa madre del centrodestra moderato. La frantumazione del blocco sociale di riferimento dell’area moderata ha spinto i maggiori partiti che la rappresentavano a una maggiore radicalizzazione della proposta politica in vista dell’interlocuzione con i nuovi deboli, cioè coloro che erano stati catapultati dalla crisi economica ai livelli di semi-povertà, se non di povertà assoluta. Questo riposizionamento strategico ha lasciato orfani della rappresentanza quelli che invece avevano mantenuto, durante la fase della stagnazione economica, solide condizioni di benessere. La scarsa credibilità morale dei rappresentanti di Alleanza Popolare, combinata all’assenza di visione politica di lungo respiro, ha fatto sì che una quota di elettorato migrasse verso sinistra saltando il centro a piè pari. Il loro approdo nel Pd ha prodotto la comparsa di istanze coerenti con un profilo partitico che non ha nulla a che spartire con la tradizione della sinistra. Questo nuovo mondo, grazie alle meccaniche autolesioniste delle “Primarie” per la selezione della classe dirigente, ha cercato un suo leader che ne rappresentasse non solo i bisogni ma anche la coscienza profonda. E lo ha trovato in Matteo Renzi. Non è un caso se il segretario del Pd piaccia più al nuovo elettorato democratico che non agli iscritti ed ai quadri del partito.
Renzi, con il suo linguaggio, dice ciò che una parte del ceto medio vuole sentirsi dire. E questo finisce con l’ingigantire il solco che lo divide dalla vecchia classe dirigente la quale, nella sua narrazione, è descritta alla stregua di un cimitero di elefanti di cui disfarsi al più presto. Bersani, che di quel cimitero è uno dei migliori esemplari, rimprovera al suo interlocutore il fatto che questi si negherebbe alla sintesi, indispensabile per tenere insieme un soggetto politico composto da diverse sensibilità. È vero! Renzi si sottrae al confronto. Ma ve n’è motivo. Il chiacchierone fiorentino è consapevole di possedere una Weltanschauung, un’intuizione del mondo che non chiede, e non desidera, mediazione. Avete letto il suo tweet a chiosa dell’approvazione della legge di riforma della Pubblica amministrazione? In quell’abbraccio a tutti i gufi c’è molto di più di una goliardica canzonatura degli avversari interni. Non sappiamo se Renzi abbia mai letto una riga delle opere di Carl Schmitt. Di sicuro ha compreso molto bene il significato che il filosofo e giurista tedesco attribuisce alla coppia assiologica amico-nemico.
Anche lo spirito della rottamazione, faro della narrazione renziana, altro non è che l’aspirazione di un giovane leader a stare nel divenire della storia senza il peso del passato e senza ipoteche sul futuro, nella intima convinzione di essere egli stesso la sintesi nella quale si riuniscono passato, presente e futuro del riformismo politico. Tuttavia, il naturale sviluppo di questa concezione porta inevitabilmente alla guerra per l’egemonia, sottospecie di una volontà di potenza di nietzschiana memoria. È per questa ragione che non si vedrà un Renzi disponibile al dialogo all’interno del suo universo partitico. Alcuni dei suoi compagni di strada, come Enrico Letta, Pippo Civati e Stefano Fassina, l’hanno capito e hanno fatto per tempo le valigie. Gli altri lo capiranno a breve, a loro spese. È un po’ come la saga di Highlander: alla fine ne resterà soltanto uno.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:17