
La sentenza della 4a Sezione della Corte di Strasburgo, del 21 luglio 2015, sui ricorsi nn. 18766/11 e 36030/11, è inquadrata nell’ambito dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti umani che regola il rispetto per la vita privata di ciascuno. Essa dice testualmente che lo Stato deve “assicurare che i ricorrenti (le tre coppie omosessuali che avevano fatto ricorso) abbiano a disposizione uno specifico quadro legale che fornisca loro il riconoscimento e la protezione delle loro unioni dello stesso sesso”.
In altre parole, la sentenza della Corte di Strasburgo chiede che siano rispettati gli orientamenti affettivi/sessuali di tutti e che vi siano, da parte dello Stato, delle tutele per le convivenze omosessuali stabili. Per la Corte dunque “un’unione civile o una partnership registrata, sarebbe un modo adeguato per riconoscere legalmente le coppie dello stesso sesso”. La Cedu ha pure ricordato che la Corte Costituzionale italiana ha invitato ripetutamente a creare, per le coppie omosessuali, una protezione legale anche in Italia. Per maggiore precisione ricordiamo che la sentenza della Corte di Strasburgo diverrà definitiva tra tre mesi, se i ricorrenti o il Governo italiano non chiederanno e otterranno un rinvio alla Grande Camera per un nuovo esame della questione.
La sentenza, in se stessa, quindi, non auspica né prevede l’istituzione del “matrimonio” fra omosessuali, come molta stampa italiana si è affrettata a scrivere. Per la Corte i paesi membri possono regolare liberamente l’istituto matrimoniale, riservando il termine “matrimonio”, come nel caso dell’Italia, alle sole coppie eterosessuali. Nella sostanza la sentenza è molto vicina alla posizione che fu nel 2007 del Governo Prodi con il disegno di legge dei cosiddetti “Dico”, nata dalla mediazione di Rosy Bindi e di Barbara Pollastrelli. Si proponeva, allora, il riconoscimento di taluni diritti per le coppie omosessuali, evitando di dare uguali diritti a quelli delle coppie tradizionali. Si puntava, cioè, alla tutela delle persone, al riconoscimento dei diritti dei conviventi. I Dico, però, non arrivarono mai al voto per l’opposizione di una parte del mondo politico e di una parte consistente di cattolici, anche se il Consiglio dei ministri (8 febbraio 2007) ne aveva approvato il disegno di legge. Alcuni ricordano che molti di quelli che oggi auspicano il “matrimonio” fra omosessuali ieri erano contro il matrimonio tout court e sostenevano le unioni di fatto. È strano che ora queste stesse persone non solo vogliono maggiori tutele per le unioni omosessuali (ed è giusto che le abbiano), ma esigono addirittura che le loro unioni siano chiamate “matrimonio”, termine che prima aborrivano. Non emerge nessuna coerenza.
Ma c’è anche un problema di giustizia distributiva. Le coppie orientate alla procreazione, con la loro prole, assicurano allo Stato la sua continuità; possono, dunque, ottenere maggiori provvidenze pubbliche (come ad esempio, le detrazioni del coniuge a carico). Le unioni fra omosessuali, non essendo orientate alla procreazione, non contribuiscono alla continuità, nel tempo, dello Stato. Esse si limitano a perseguire un loro legittimo interesse individuale. Per la giustizia distributiva, quindi, devono ottenere meno provvidenze pubbliche. Questa non è una discriminazione, ma attiene al campo della giustizia distributiva. E lo Stato ha il dovere di assicurarla.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:09