Quella paura di combattere l’Isis

In risposta all’ondata di terrore che ha sconvolto la Tunisia, il primo ministro Essebsi ha dichiarato per un mese lo stato d’emergenza. Rivolgendosi alla nazione, il premier ha parlato di condizioni senza precedenti per il proprio paese, di un nemico alle porte sanguinario e irriducibile, intento a minare sia l’economia che il processo democratico e laicizzante intrapreso dalla repubblica tunisina dopo la primavera araba. La confinante Libia dove imperversano le forze dell’Isis presenta una minaccia reale e vicina, contro la quale è necessario fare la guerra. I pericoli esterni non sono tuttavia l’unica preoccupazione per la Tunisia, in quanto nella piccola nazione nordafricana nemici interni pressano sul suo difficile cammino per la democrazia. Con un’ordinanza speciale tutte le moschee fuori dal controllo dello stato, e quindi con personale controllato e sicuro, verranno chiuse. Tale provvedimento, ritenuto a ragione necessario, ha già creato dissapori fra il popolo e portato ad alcuni scontri con la polizia.

La difficile situazione della Tunisia, per quanto al momento monopolizzi l’attenzione dei media, non è per niente un caso isolato, anzi, si presenta con inquietante frequenza in tanti paesi arabi o musulmani. L’Egitto di al-Sisi, per fare un esempio, combatte militarmente gruppi estremisti nel Sinai da diversi giorni, così come la Giordania mobilita il proprio esercito e si scontra con lo Stato Islamico oramai alle porte. In entrambi i paesi una particolare attenzione è stata data anche all’operato dei predicatori interni, tramite maggiori controlli e soprattutto con la manifesta volontà di non tollerare esortazioni all’odio nei propri istituti religiosi. Importante a riguardo il discorso tenuto dal presidente egiziano il primo gennaio all’università al-Azhar.

Ci sono delle lezioni importanti da apprendere, di cui fare tesoro, e dalle quali partire per una seria lotta al cancro dell’estremismo islamico anche per l’Europa e per l’Occidente. Il primo punto dal quale partire è il riconoscimento della gravità del pericolo, e l’accettazione delle misure militari per combatterlo. L’Isis è un nemico mostruoso, da colpire e annichilire fisicamente, questa semplice verità non può più essere rifiutata o nascosta. La guerra si deve fare, e si deve anche vincere, poiché non esistono possibili compromessi con un’entità simile. Tuttavia una presa di coscienza, e una conseguente azione non sono sufficienti a porre fine al problema, che mostra con sempre maggior chiarezza una natura ideologica. La religione islamica soffre di problemi strutturali, che hanno permesso a predicatori invasati di riversare su interi popoli fiumi di odio e di folli disegni di conquista e distruzione. L’Isis è uno dei naturali sbocchi di decenni di propaganda e di indottrinamento, e una volta sconfitto lo Stato Islamico, lo stesso odio prenderà altre forme con simili intenti di sopraffazione e imposizione.

L’Occidente deve capirlo, e muoversi conseguentemente. Il suo senso di colpa, la paura di essere additati con l’etichetta di razzisti o di islamofobi, sono pesi di cui liberarsi al più presto. Avere paura della belva islamica e della sua ideologia di fondo è sintomo di buon senso, e non implica alcun comportamento discriminatore o intollerante, al contrario chiudersi dietro falsi moralismi o giustificare il fenomeno facendo ricorsi storici sui torti che il mondo occidentale ha, o avrebbe, fatto subire al mondo islamico è pura incoscienza. Dall’altra sponda del Mediterraneo, proprio perché consapevoli della natura e dei rischi che comporta sottovalutare un simile nemico, stanno correndo ai ripari con tutti i mezzi di cui dispongono ed è dovere, oltre che interesse, dell’Occidente correre in loro aiuto.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:18