
Ci sono storie che devono essere raccontate: magari sostituendo i nomi, alterando qualche circostanza marginale, collocando i fatti in luoghi lontani dal teatro degli avvenimenti, ma devono essere raccontate affinché possano essere conosciute. Noi, così attenti anche al più insignificante tweet del potente di turno e così pronti ad esprimere giudizi su tutto e su tutti, abbiamo perso interesse per le storie, quelle vere, che raccontano fatti e ci fanno riflettere, aiutandoci a conoscere e, dunque, a valutare.
Quella che segue è la storia - anzi, una delle tante storie - che descrive i reali rapporti di forza nel nostro sistema giudiziario, nel quale, almeno così dice la Costituzione, siamo soliti collocare in posizione apicale la figura del giudice, vale a dire di colui che decide le sorti delle persone, dei loro beni e della loro stessa condizione.
Il giudice è, o dovrebbe essere, il punto di riferimento di ogni istanza, richiesta, e dovrebbe collocarsi al di fuori - qualcuno dice al di sopra - del terreno di scontro. Un evidente retaggio del nostro “non possiamo non dirci cristiani”, che richiama alla memoria il giorno del Giudizio universale, dove ogni cosa sarà decisa da Chi tutto sa. Siamo dalle parti di Vigàta, dove vive e lavora il commissario Montalbano. Un giovane Pubblico ministero, svolta una lunga indagine, chiede ed ottiene l’arresto di un gruppo di persone accusate di omicidio; poiché ritiene di essere in possesso di prove schiaccianti, il Pm trascina immediatamente a giudizio - tecnicismo che indica il cosiddetto rito immediato - gli imputati, che si trovano sottoposti al giudizio della Corte d’assise, giudice naturale della vicenda.
Accade però che, nelle more della prima udienza e per i primi sei mesi di dibattimento, in gran segreto, senza che sia informato il suo difensore (che resta tale) e, quel che più conta, senza che il giudice abbia conoscenza di ciò accade nel suo processo, uno degli accusati vuota il sacco e rilascia dichiarazioni su molti fatti, tra i quali, ovviamente, anche gli omicidi sui quali sta procedendo la Corte d’assise. Alla fine il segreto cade e il collaboratore tenuto segreto viene condotto a deporre. Tutto bene, dirà qualcuno. Tutto male, anzi malissimo, dico io. Proviamo a pensarci bene: che giudice sarà mai quello che, con iniziative arbitrarie, viene spogliato delle sue attribuzioni, quello che non controlla l’andamento del processo che deve decidere e che spreca mesi e mesi in attività del tutto inutili, destinate ad essere vanificate da ciò che accade dietro le quinte? Ma soprattutto: chi comanda nel processo? Qualcuno obietterà che quel giudice, scoperto il fatto, avrebbe dovuto protestare contro il rappresentante dell’accusa, reo quantomeno di contempt of court, di mancanza di rispetto del giudice e dei ruoli.
Tranquilli, non è capitato niente di tutto questo. Anzi, no, una cosa è accaduta: hanno incriminato il difensore di quel tizio, colpevole, una volta scoperto l’inghippo, di avere reagito e quella iniziativa e di avere vibratamente protestato rivendicando l’inviolabilità del diritto di difesa, che si rispetta, prima di tutto, applicando la legge. Come diceva Esopo, la favola insegna: quando una parte conta più del giudice, non c’è un processo, ma si consuma una farsa tragica, il cui esito non dipende dalla sentenza.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 17:54