La riforma carceraria non vuole “passerelle”

Alla fine Adriano Sofri ha rinunciato all’incarico che gli era stato offerto dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Lo ha fatto con la consueta, spocchiosetta aria di sufficienza definendo fesserie le polemiche che l’iniziativa del Governo aveva acceso. Ma lo ha fatto. In ogni caso ha compiuto un gesto di buon senso che chiude una fortunatamente breve vicenda nata male e su cui si è consumato un inutile quanto ottuso scontro da opposte tifoserie. Ottuso perché agganciato al travisamento del significato dei termini giustizialismo e garantismo, ormai usati spessissimo in modo strumentale.

Chi parla di giustizialismo feroce a proposito delle libere obiezioni di coloro che non hanno accolto con sommo e prono entusiasmo la decisione di Orlando di cooptare Sofri a discutere della riforma delle carceri, ha dato infatti prova di come l’antinomia “garantismo-giustizialismo” sia diventato un facile monolitico totem lessicale e concettuale, privo di sfaccettature che finisce per schiantarsi, fino a tramortirlo, sul pensiero vigile e sul senso della realtà. Un lavacro in cui sciacquettarsi bocca e mente e acquietare la propria coscienza sotto l’ala di una delle due tifoserie senza esercitare il sacro beneficio del dubbio e della funzione critica, in quella scomodissima e solitaria zona franca che i liberali definiscono “altrove”.

Fermo restando la perenne pulsione forcaiola di una parte dell’opinione pubblica scandalizzata per la decisione di far parlare di riforma penitenziaria un assassino che ha scontato la sua pena e che è poi sempre la stessa che guarda come ad un ansiolitico l’innalzamento delle pene o vorrebbe “gettare la chiave” delle celle che ospitano i detenuti, il garantismo e il giustizialismo sono categorie valoriali che nulla hanno a che vedere con l’iniziale decisione del ministro né con le legittime perplessità di chi si è domandato perché far ricadere la scelta proprio su Sofri.

Garantismo, sarebbe bene ripeterlo fino allo sfinimento, come non corrisponde a impunità, non significa rinunciare al proprio diritto, se determinate scelte siano o meno opportune. E la decisione del ministro di chiamare Sofri ha rappresentato semplicemente una scelta inopportuna. Perché ha confermato la vocazione di una certa sinistra a celebrare autoreferenzialissimi rituali-passerella, sciarade fradicialchic in cui cooptare i soliti esponenti dei circoletti buoni nelle occasioni di politica pubblica. Nel caso di Sofri della frateria Ferrara-Sofri-Bignardi. È un problema culturale, di opportunità. Soprattutto considerando che moltissimi altri ex detenuti, nel frattempo magari si sono anche laureati in carcere o hanno intrapreso importanti e vincenti percorsi riabilitativi e che potrebbero dare il loro preziosissimo contributo all’elaborazione di un importante processo di rinnovamento come quello inaugurato dagli Stati generali delle carceri. Certo, se solo si superasse quell’handicap che non li vede appartenenti a fraterie di sorta.

La vicenda si è chiusa nell’arco di ventiquattro ore ma vale la pena soffermarsi su un aspetto di sostanza che resta sul tavolo. Ritenere giusto appuntare un nome come quello di Sofri all’occhiello del sacrosanto percorso cui tutti i garantisti autentici guardano con fiducia affinché si giunga ad una riforma del sistema di esecuzione della pena, francamente avremmo voluto che si fosse evitato. Anche perché, in ultimo, conferma che la legge per certa sinistra si applica per i nemici e si interpreta per gli amici. Non è il garantismo ad esser chiamato in causa, ma il garantismo peloso sì. E torna ad imporsi la differenza tra liberali autentici e liberali fasulli.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:13