
Parliamo di parole. Nel lessico dell’odierna politica le parole hanno valenza polisemica. Si prestano a servire molteplici significati. Come se la materia di cui sono fatte non avesse sostanza ma solo forma. Come se l’assenza di peso specifico consentisse di poterle scagliare contro gli interlocutori senza doverne prevedere le conseguenze talvolta dolorose, quando non devastanti. Talvolta ce la prendiamo con le parole dimenticando i pensieri ai quali esse si connettono. Soltanto quando colpiscono ci si accorge che le parole sono pietre, come scriveva Carlo Levi. Con le parole si erigono muri.
La storia del nostro Paese è stata segnata dalla sopravvivenza di un sentimento profondo di odio politico che ha attraversato la società, dividendola. Dai tempi del secondo dopoguerra il mondo della sinistra ha vissuto il conflitto con la destra come lotta tra due forze contrapposte e inconciliabili in una dimensione metaetica che incideva sulla visione del mondo e del divenire della storia. Una scissura che è alla radice anche del teorema berlingueriano sulla “diversità morale della sinistra”.
La fine traumatica della Prima Repubblica non ha condotto ad alcun ravvedimento circa il paradigma dell’inconciliabilità, voluto dalla sinistra. Al contrario, la comparsa in scena di Silvio Berlusconi ha dato la stura a una nuova ondata di odio, ricalibrata sulle mutate condizioni di contesto. Walter Veltroni provò, nel 2008, a cambiare verso partendo dalle parole. L’odiato nemico Berlusconi divenne “il principale esponente dello schieramento a noi avverso”. Prima di lui, Luciano Violante aveva praticato un punto di sutura sulla ferita ancora aperta della guerra civile che insanguinò l’Italia tra il 1943 e il 1945. Nel suo discorso d’insediamento alla presidenza della Camera dei deputati, nel 1996, disse: “Dobbiamo capire i vinti di Salò”. Ma entrambi sono state meteore transitate troppo velocemente nel cielo della sinistra italiana da potervi lasciare traccia indelebile.
Oggi, le invettive trasmettono lo stesso immutato sentimento d’odio di sempre. Nel fine settimana due episodi ci hanno riportato alla cruda realtà di una divisione inconciliabile. Il primo riguarda il sottosegretario Ivan Scalfarotto, il quale ha definito “evento inaccettabile” il “Family day” in difesa della famiglia tradizionale, organizzato a Roma dai movimenti cattolici. Ora, delle parole d’ordine del corteo si può pensare ciò che si vuole. Anche che siano sbagliate e fuori tempo. Non entriamo nella sostanza del dibattito in corso sui matrimoni tra persone dello stesso sesso o sulla “destrutturazione” del gender, sulla quale avremmo molte cose da dire. Tuttavia, resta il fatto che definire il libero diritto a esprimere un’idea un evento inaccettabile equivale a delegittimare chi la pensa diversamente. Né più né meno di come accade nei regimi autoritari.
Il secondo episodio riguarda il sindaco di Roma Ignazio Marino il quale, durante il discorso alla festa cittadina dell’Unità, ha esortato la destra a tornare nelle fogne dalle quali è venuta. Due modi, dunque, di declinare la pretesa “diversità morale della sinistra”. Sorge il sospetto che questa sinistra di potere, parecchio in difficoltà con il Paese, non avendo altro modo per recuperare appeal finisca con lo scoprire la sua vera natura, appena occultata sotto la patina “liberal” di un enfatizzato progressismo. Essa semplicemente odia chi è dall’altra parte del campo. Non potendo eliminare fisicamente coloro che ritiene nemici, anela a ridurli al silenzio sotto il peso di una condanna ontologica. Proprio come avveniva in Unione Sovietica ai bei tempi del compagno “baffone”. In Italia, però, non avendo disponibili gulag siberiani, allora ci si adatterebbe a rispedirli nella Cloaca Maxima. A voi questa sembra democrazia?
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 18:28