Comunque sia, non chiamiamoli migranti

Occorrerà pur farlo, alla fine, un discorso controcorrente su questa faccenda dei migranti, argomento altrimenti sballottato in tutte le variazioni della più corriva speculazione mediatica: dall’epopea morale pronta a sbandierare una spesso ipocrita compassione, alla meschina e interessata risciacquatura di tutte le ansie, le paure, le angosce, vere o immaginarie, che intasano il ventre oscuro delle società occidentali. In questa confusione di lingue e interessi, nessuno che abbia il coraggio di affrontare la questione nelle sue vere radici, nella sua cruda realtà, molto complessa e drammatica, di livello e con aspetti epocali, sconvolgenti, che rischiano di travolgere - questo sì - gli equilibri demografici di mezzo mondo, mica solo delle periferie romane...

Risalire controcorrente le acque vischiose dell’attuale, così mediocre e strumentale approccio non mi sarà difficile: mi basterà riesumare un intervento, sul “Foglio” del 22 aprile scorso, di Adriano Sofri. Molti amano questo grande reduce di tante (perdute) battaglie, alcuni lo detestano. Ma la sua mezza colonnina di due mesi fa mi pare impeccabile, sostanziosa, profonda: coglie nel cuore il problema. La citerò ampiamente, non avrò molto da aggiungere.

“Io non so quale sia la soluzione - esordisce Sofri - e temo che non ci sia la soluzione. Si può solo fare - prosegue poi - meglio o peggio. Un piccolo passo avanti sarebbe nello smettere di spiegare perché in tanti vengono alla nostra volta, e chiedersi come mai in tanto pochi vengano alla nostra volta”. Attenti, Sofri si chiede perché in tanto pochi vengano alla nostra volta. Pochi? Ma come, se ogni telegiornale ci rovescia nelle case cifre da esodo biblico: 500, 1000, 2000 al giorno... la turba infinita di quelli che mettono piede sulle nostre spiagge e nei nostri porti creando i problemi, le preoccupazioni, le ansie di cui ci parlano i quotidiani. Un autorevole commentatore di un quotidiano autorevolissimo ha puntualizzato: “Si tratta di un fenomeno epocale. È qualcosa che lasciato a se stesso costituisce un pericolo per aspetti decisivi della nostra vita, come collettività statale e nazionale...”.

Ma Sofri continua nel suo implacabile interrogarsi, e si chiede invece “come resistano in cinque, seicentomila nel campo profughi di Dadaab, in Kenya. Come possano rinunciare a venire alla nostra volta i 350mila somali che il minacciato smantellamento di Dadaab intende rimpatriare. Come resistano in centomila i profughi siriani del campo di Zaatari, in Giordania. Come resistano in Libano, in Turchia, in Kurdistan, in Siria, in Iraq, in Yemen i milioni di cacciati, decimati, umiliati....”.

Per chi non le conoscesse (come io, colpevolmente, prima che Sofri me le sbattesse sotto il naso) queste sono dunque le cifre - probabilmente solo approssimative, nessuno ha curato e può garantire un puntuale censimento - della questione dei migranti. A proposito: migranti è un nome gentile, ma rischia di diventare un alibi. Come Sofri ammonisce, “qualunque iniziativa capace di fermare o frenare sul bagnasciuga i fuggiaschi delle guerre e della fame li lascerebbe, i fuggiaschi, in balìa di tagliagole e stupratori”. Penso che Sofri abbia ragione, quelli non sono esattamente migranti: sono fuggiaschi, gente in fuga. I migranti vanno verso la speranza, questi fuggono dalla disperazione.

Di chi le responsabilità di questa tragedia immane, epocale? Sofri avverte che forse sarebbe un altro piccolo passo avanti “l’affrontare la questione della nostra colpa storica, di noi occidentali, del nostro colonialismo, del nostro benessere, eccetera. Non per dire che il fardello è ormai prescritto: pesa ancora, ma non certo per farci sentire, o fingere di farci sentire, colpevoli nei confronti dei despoti fanatici e assassini dei loro popoli, bensì delle loro vittime, quelli che vengono da noi camminando sull’acqua, perché non sanno nuotare...”.

Personalmente, aggiungerei che un altro bel po’ di colpa noi occidentali ce la siamo accollata quando abbiamo ignorato, o affossato, o mistificato la grande campagna contro lo sterminio per fame nel mondo che Marco Pannella e i suoi avviarono nel 1981 con il celebre appello firmato dai Nobel. Era una iniziativa preveggente, per nulla pietistica o “umanitaria”: affrontava alle radici il problema, in grande anticipo sui tempi. Sarebbe stato, forse, lo strumento adatto perché l’Occidente potesse tentare di riparare la sua “colpa storica”. L’occasione non fu colta, oggi dobbiamo assistere, invece, alle miserabili beghe che politici (occidentali) di quart’ordine e opinionisti (occidentali) male informati quotidianamente ci ammanniscono.

Raccontano, storia o leggenda che sia, che nel 452 d.C. Attila, il feroce re degli Unni, venne fermato, nella sua calata in Italia, da Papa Leone I. Oggi c’è chi invoca l’esercito, chi mette in mora i prefetti per il loro lassismo nel contenere il flusso incontrollato dei migranti (o fuggiaschi). Ho il sospetto che, per fermare quel flusso - in modo sicuramente più costruttivo e comunque umano - dovremo pregare Papa Francesco di intervenire di persona. Secondo storici e studiosi di vaglia, le religioni si affermano quando gli Stati, le leggi, ecc., latitano. Successe proprio così all’epoca di Costantino, segnando la fine del mondo antico.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:13