
Serena Sileoni, giovane e valorosa vicedirettrice dell’Istituto Bruno Leoni, noto think tank liberale, ha da poco sostenuto (sul Foglio Quotidiano dell’11 giugno) che “Le correnti in magistratura non si battono con le chiacchiere. Meglio un dado”. Si tratta di una brillante e paradossale – ma nemmeno tanto – difesa del principio stocastico (vale a dire della casualità) ai fini della composizione almeno della quota di tecnici del Consiglio superiore della magistratura. La proposta è formulata al dichiarato scopo di tagliare le unghie, riportandolo ad un’operatività fisiologica, ad un organo che – concepito in sostanza come consiglio di amministrazione delle vicende professionali di una particolare corporazione di funzionari pubblici dei quali occorreva garantire, in uno Stato di diritto, l’indipendenza – si è trasformato nel tempo, col favore di una larga dottrina costituzionalistica e di molta parte dell’opinione pubblica, in altro: una stanza di compensazione in cui le aristocrazie correntizie di questa temuta “casta”, che alla lettera sarebbe un “ordine”, ma in pratica è un potere fino a non molto tempo fa irresponsabile (per il futuro si vedrà, una nuova legge promette ora di circoscriverne i possibili abusi), regolano le aspettative di carriera, onori e disonori – data appunto la sopravvivenza della “giustizia domestica”, per la quale gli illeciti disciplinari dei magistrati sono giudicati solo da loro pari – dei rispettivi aderenti.
L’autrice non esibisce, per sobrietà intellettuale, le sue fonti, ma non è difficile riconoscere – all’origine delle sue riflessioni – le teorie del politologo francese di insegnamento statunitense Bernard Manin. Il governo “rappresentativo” e caratterizzato da accountability degli eletti verso gli elettori è infatti, come egli ci ricorda, un dispositivo che nasce con la modernità. La democrazia diretta ateniese, sotto Pericle, estraeva invece a sorte (beninteso tra i soli cittadini di sesso maschile, gruppo numericamente e per etnia molto ristretto, nonché a consistenza variabile, visto che per motivi bellici e per debiti si poteva perdere lo status di cittadino) chi dovesse, per un tempo limitato, gestire le cariche pubbliche. La crisi della rappresentanza è oggi così evidente che verrebbe in realtà voglia di proporre lo strumento per chiunque aspirasse ad ogni ruolo di governo. L’obiettivo da assicurare è l’eguaglianza di opportunità per i cittadini e il risultato più efficace per la comunità. Quale delle strade, tra elezione e fortuna, persegue al meglio la menzionata coppia d’assi, combinata assieme, nel caso che stiamo discutendo? Tirare i dadi non porta in fondo sempre ad un cattivo risultato, come sapeva il giudice Bridoye di “Gargantua e Pantagruel”, che così decideva le cause e che una sola volta sbagliò la sentenza, ma solo perché il calo della vista dovuto all’avanzare dell’età non gli aveva fatto leggere bene il punteggio delle facce. L’elezione è invece un meccanismo di legittimazione che si presta ad abusi, a seduzioni clientelari, al “voto di scambio”: come dice Manin, un travestimento – in nome della democrazia – dello spirito in realtà conservatore o “moderatore”, mentre almeno la sorte è cieca. Nulla, in ogni caso (né destino, né elezioni) assicura a priori l’individuazione della competenza o dei “migliori” (che spesso da competizioni truccabili o che la forza delle “cordate” può alterare si tengono ben lontani e non si “sporcano le mani”).
Un altro modo per scompaginare calcoli “elettorali” preventivi, ma più soft e meno radicale del sorteggio (che in se stesso li azzererebbe), sarebbe quello di ricorrere al panachage, o “voto disgiunto”, metodo di scelta che conferisce maggiore libertà all’elettore rispetto agli apparati organizzati che orientano il voto, perché prevede di potere divaricare la preferenza alla lista e quella al candidato, come dai noi si fa nelle elezioni dei consigli comunali delle città almeno medie e in quelle regionali.
Come che sia, un corpo tecnico non dovrebbe “rispondere” ad attese puntuali e prevalenti degli amministrati in toga (tant’è che al Csm non si è immediatamente rieleggibili, una volta compiuto il mandato), ma solo a quelle più larghe dei cittadini, in vista di una giustizia “giusta”, rapida ed esercitata correttamente in modo imparziale, nonché di ufficî ben diretti. La proposta che si è ripresa è forse destinata a scarsa fortuna, in tempi di giustizialismo trionfante, ma è meglio – riponendola nel cassetto – non dimenticarla e tenerla buona per tempi migliori, quando la polvere della demagogia si sarà posata e si riscoprirà la verità del vecchio adagio per cui saranno pure ottimi i custodi, ma c’è bisogno di qualcuno o di qualcosa che a sua volta li custodisca. Antiche metafore e icone tradizionali convergono, per descrivere Sorte e Giustizia, ma forse è meglio una fortuna caeca (come la descriveva Cicerone) per governare chi impartisce la seconda e fare sperare che alla fine Dike si sbendi, beninteso non per premiare gli amici e sanzionare gli avversari, bensì per mirare – vedendoci appunto bene – al bonum et aequum.
(*) Salvatore Prisco insegna Diritto pubblico comparato e Diritto e letteratura nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università “Federico II” di Napoli
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 18:33