
Decisamente non è un bel “compleanno”, ma si può comunque cogliere l’occasione per qualche forse non inutile riflessione. Il compleanno è quello che si celebrerà tra qualche settimana: è il 29 giugno di un anno fa quando un uomo vestito di nero e con la barba lunga si presenta al mondo con il nome di Abu Bakr al-Baghdadi; dichiara di essere il leader del “Califfato”, un territorio compreso tra Siria e Iraq caduto nelle mani dei fondamentalisti islamici. Un territorio che vuole estendere, far arrivare alla Mecca, al Cairo, a Roma; promette fuoco e fiamme per gli infedeli, ed effettivamente le sue mani grondano sangue. In queste ore i servizi di sicurezza occidentali mettono in guardia dai “festeggiamenti” che per l’occasione possono esserci: si teme un attacco in grande stile per celebrare l’anniversario della nascita “formale” di uno Stato che si espande quasi indisturbato.
Magari no; è comunque un fatto che in un anno la forza mediatica e militare dell’Isis è cresciuta in modo esponenziale e semina terrore con plurimi sgozzamenti, esecuzioni sommarie crudeli, attentati, distruzioni e minacce di attacchi; i seguaci di al-Baghdadi inondano la Rete e i media con video, manuali e messaggi di ogni genere. Non esistono cifre ufficiali, ma si stima che le vittime dei terroristi siano circa 15mila; molti occidentali, tanti di religione cristiana; tantissimi, la maggior parte, musulmani, vittime che credono nel dio dei loro carnefici. Sono comunque cifre al ribasso, perché non si esclude che ci possano essere, nei territori occupati dai “soldati di Dio” centinaia di fosse comuni sconosciute.
Una politica del terrore che oltre ad una quantità di fanatici che non si chiedono minimamente perché chi promette loro il Paradiso con le Urì e i fiumi di latte e miele non va per primo a beneficiarne, e fa con loro il martirio; una politica del terrore che certamente è nutrita e alimentata da potenze che ad altro che un ipotetico califfato sono interessate; e i finanziamenti per questa politica del terrore arrivano da una serie di attività illecite come il traffico di armi, la vendita del petrolio sul mercato nero, il traffico di esseri umani e opere d’arte; e anche quello della droga che pare abbia già fruttato al Califfato miliardi di dollari. Una vera e propria “economia del terrore”.
La follia jihadista contagia migliaia di persone in tutto il mondo, creando un esercito di “lupi solitari” pronti a colpire: gli attentati di Ottawa, Sidney, Parigi e Copenaghen sono alcuni esempi. A questi aggiungiamo i foreign fighters: combattenti volontari partiti alla volta della Siria e dell’Iraq per arruolarsi con i miliziani dell’Isis.
L’Isis costituisce un vero pericolo per l’Occidente essenzialmente per due motivi: perché ha la struttura e opera come uno Stato; perché la violenza che pratica attira fortemente giovani anche dall’Occidente, l’Europa in particolare, che non credono nel pacifismo e vedono nella pratica della violenza il mezzo per non subirla. Illuminante, al riguardo, quanto racconta Maurizio Molinari, corrispondente de “La Stampa” da Israele, dopo anni trascorsi negli Stati Uniti. Autore di un documentatissimo “Il Califfato del terrore” (Rizzoli editore, pagg.157; 17 euro), Molinari racconta di essere rimasto sorpreso e sconcertato “andando in giro ad intervistare gente in vari Paesi mediorientali, dalla Giordania, al Libano, alla Turchia, e scoprire quanti arabi e non arabi sono affascinati dall’idea del ritorno al califfato, quello che chiamano “Bilad al-Sham”. Non è l’Islam che attrae i figli di famiglie arabe integrate e di successo in Europa, giovani che sono preparati, colti, ma la violenza. È scioccante, ma è così. Vogliono praticare la violenza e non esserne vittime”.
Come uscire da questa situazione, se si possa e voglia farlo, è un discorso complesso, qui lo si è appena abbozzato; ma bisognerà pur decidersi a farlo. Esiste una possibilità di transizione praticabile, del mondo arabo verso lo stato di diritto? È la questione.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 18:19